lunedì 20 dicembre 2010

Il significato dell'Avvento: intervista per "Avvenire" di Mons. Guido Marini


Qual è il significato dell’Avvento ?
L’Avvento è il tempo dell’attesa. Dell’attesa che fa riferimento a una venuta, quella del Signore Gesù, il Figlio di Dio, l’unico Salvatore del mondo. Il popolo cristiano, in questo tempo forte dell’anno liturgico, vive la propria fede rinnovando la consapevolezza gioiosa di una triplice venuta del Signore, quella di cui parlano anche i Padri della Chiesa.
Una prima venuta, della quale fare grata memoria, è quella del Figlio di Dio nella storia degli uomini, al momento dell’Incarnazione. Una seconda venuta è quella che si realizza nell’oggi della vita, e che è incessante. Essa prende forma in una molteplicità di modi, a cominciare dall’Eucaristia, presenza reale del Signore in mezzo ai suoi, per continuare con i sacramenti, la parola della divina Scrittura, i fratelli, soprattutto se piccoli e bisognosi. Una terza venuta, da attendere nella speranza, è quella che si realizzerà alla fine dei tempi, quando il Signore ritornerà nella gloria e tutto sarà ricapitolato in lui.
Così, nel tempo dell’Avvento il popolo cristiano è chiamato a rinnovare la consapevolezza che la sua vita è tutta contenuta nel mistero di Cristo, Colui che era, che è e che viene. Anche per questo, l’Avvento è un tempo marcatamente “mariano”. La SS. Vergine è colei che in modo unico e irripetibile ha vissuto l’attesa del Figlio di Dio, è colei che in modo singolare è tutta contenuta nel mistero di Cristo.

In che modo i singoli fedeli e le comunità cristiane possono aiutarsi a vivere meglio questo momento forte del tempo liturgico della Chiesa?
Entrando in questo tempo con l’atteggiamento interiore di chi si prepara a vivere un periodo di conversione e di rinnovamento, orientando con decisione la propria vita al Signore Gesù.
La Chiesa, con l’anno liturgico, ci offre periodicamente la grazia di vivere momenti spiritualmente forti, occasioni propizie per ritrovare lo slancio del cammino verso la santità. Nell’Avvento un tale slancio ha un tono singolare, che è quello della gioia. La gioia al pensiero che il Signore si è già mostrato nel suo volto di amore misericordioso e inimmaginabile. La gioia al pensiero che il Signore è nostro contemporaneo e vicino oggi, nel presente della nostra esistenza, nella quotidianità semplice delle nostre giornate. La gioia al pensiero che il futuro non è avvolto nell’oscurità, ma risplende della luce del Cielo di Dio in Cristo.
Tutto questo diventa esperienza di vita anche in virtù di un cammino personale e comunitario di conversione, fatto di una più intensa e prolungata preghiera, di una qualche forma penitenziale e di distacco dalla mentalità del secolo presente, di una carità più generosa e autenticamente cristiana.

Quali sono le caratteristiche delle celebrazioni in questo periodo?
La liturgia, per il tramite dei riti e delle preghiere, conduce alla partecipazione attiva del mistero celebrato. Pertanto, nella celebrazioni del tempo di Avvento, deve trasmettere il senso dell’attesa tipico dell’Avvento. Lo deve fare con le sue preghiere, con il suo canto, con il suo silenzio, con i suoi colori e con le sue luci. In tutto deve farsi presente il mistero del Signore che viene, lui che è il Principio e la Fine della storia; in tutto deve rendersi in qualche modo toccabile la gioia vera e sobria della fede; in tutto deve trasparire l’impegno per il cambiamento del cuore e della mente per un’appartenenza più radicale a Dio.

E quali le particolarità delle liturgie pontificie?
Se pure in un contesto peculiare, quale quello dovuto alla presenza del Santo Padre, le liturgie pontificie non possono che presentare le caratteristiche tipiche di questo tempo dell’anno. Con una nota in più: quello della esemplarità. Perché non è mai da dimenticare che le celebrazioni presiedute dal Papa sono chiamate a essere punto di riferimento per l’intera Chiesa. E’ il Papa il Sommo Pontefice, il grande liturgo nella Chiesa, colui che, anche attraverso la celebrazione, esercita un vero e proprio magistero liturgico a cui tutti devono rivolgersi.

Quest'anno in particolare la liturgia dei primi Vespri di Avvento è inserita in una "Veglia per la vita nascente". Qual è il significato di questo particolare "abbinamento"?
Si tratta di un abbinamento che si sta rivelando felice. L’iniziativa di una “Veglia per la vita nascente”, promossa dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, viene in tal modo a inserirsi nella celebrazione di inizio dell’Avvento, un tempo quanto mai indicato per il richiamo al tema della vita. L’Avvento è il tempo dell’attesa di Maria, che portava nel grembo il Verbo di Dio fatto carne. L’Avvento è l’attesa della Vita vera, quella che si è manifestata nel Figlio di Dio fatto uomo, pienezza e compimento del disegno di Dio sull’umanità. In quella Vita, apparsa a Betlemme, ha trovato significato nuovo e definitivo la dignità di ogni vita umana. Così, davvero, pregare per la vita nascente, nel contesto della celebrazione dei Primi Vespri per l’inizio dell’anno liturgico, risulta significativo e provvidenziale.

Gianni Cardinale

venerdì 26 novembre 2010

PRIMI VESPRI PER L’INIZIO DEL TEMPO DI AVVENTO VEGLIA PER LA VITA NASCENTE

Pope Benedict XVI arrives to celebrate the First Vespers on the occasion of the first week of Advent in Saint Peter's Basilica at the Vatican November 28, 2009.

La consuetudine, iniziata con Benedetto XVI, di celebrare i Primi Vespri nella Prima Domenica di Avvento nella Basilica di San Pietro intende sottolineare l’inizio di un nuovo Anno Liturgico per la vita della Chiesa. Con il tempo di Avvento, infatti, inizia un nuovo ciclo annuale, nel quale la Chiesa celebra tutto il mistero di Cristo, dall’Incarnazione alla Pentecoste e all’attesa del ritorno del Signore.
L’addobbo floreale, pur presente, è improntato a una certa sobrietà, in modo che venga significata la specificità liturgica e spirituale dell’Avvento, come tempo di attesa del Signore che viene, nel segno della gioia ma anche della penitenza e della vigilanza. Si consideri, in questo senso, il ritornello cantato alle intercessioni: “Veni, Domine, et noli tardare”. Il compimento dell’attesa e la pienezza della gioia si manifesteranno nella Santa Notte di Natale al canto del “Gloria”. In questo stesso senso deve essere compreso il colore viola delle vesti liturgiche che accompagnerà per intero il tempo di Avvento, proprio a cominciare da questa celebrazione vespertina.
Quest’anno, alla celebrazione dei Primi Vespri si accompagna la Veglia di Preghiera per la Vita nascente, promossa dal Pontificio Consiglio per la Famiglia e celebrata oggi in tutta la Chiesa Cattolica. Per tale circostanza, prima della celebrazione dei Vespri, è previsto un tempo di riflessione e di preghiera: si alterneranno la lettura di alcuni testi del magistero sul tema della vita, alcuni canti tipici dell’Avvento, momenti di silenzio e preghiere.
Inoltre, la celebrazione dei Vespri sarà preceduta dall’esposizione del SS. Sacramento a cui farà seguito, al termine della celebrazione, l’adorazione e la benedizione eucaristica. Durante il tempo dell’adorazione il Santo Padre reciterà una preghiera per la vita, composta per la particolare occasione.
Durante i Vespri, le brevi pause di silenzio al termine dei salmi e della lettura breve intendono aiutare la preghiera personale e quel clima di raccoglimento che sempre deve caratterizzare l’atto liturgico e che rende capace il cuore di aprirsi all’ascolto più attento della Parola di Dio e alla migliore comprensione dei misteri del Signore.
Si ricordi, in proposito, ciò che afferma sant’Agostino a proposito del canto dei salmi: “Si ode la voce di Cristo e della Chiesa, di Cristo nella Chiesa, e della Chiesa in Cristo”.
Il tempo di Avvento è un tempo mariano: l’attesa del Signore che viene è accompagnato da Maria, la cui attesa del Signore è per tutti esemplare. Anche per questo all’altare della confessione viene collocata l’immagine della Madonna e la celebrazione dei Vespri si conclude con il canto di un’antifona mariana, davanti a un dipinto che la raffigura la SS. Madre di Dio, collocato sulla colonna a sinistra dell’altare della Confessione.

L'USO DELLE TROMBE D'ARGENTO

Mons. Guido Marini e don Massimo Palombella S.D.B.
Il complesso musicale detto “Trombe d’argento” accompagnava le Celebrazioni Pontificie nella Basilica Vaticana suonando dal primo loggiato del tamburo della cupola o dalla loggia interna dell’Aula delle Benedizioni. Esso suonava la “Marcia Solenne” all’ingresso e all’uscita del Sommo Pontefice (dalla Loggia interna dell’Aula delle Benedizioni) e il “Largo Religioso” al momento dell’Elevazione (dal primo loggiato del tamburo della cupola).

Le due composizioni – che risalgono al 1846 – sono opera di due Guardie Nobili: il Conte Domenico Silveri e il Marchese Giovanni Longhi. Esse ebbero larghissima fama, tanto che qualche inglese finì con il confondere il nome di Silveri con la voce “silver” che significa argento.
Tuttavia il nome “Trombe d’argento” derivava non tanto dalla materia di cui erano composti gli strumenti quanto dal loro suono puro, dolce e squillante che si fruiva nella Basilica di San Pietro.
L’uso delle “Trombe d’argento” è rimasto anche dopo la Riforma Liturgica avviata dal Concilio Vaticano II, ma solo per alcune particolari Celebrazioni.

Oggi, nel processo di sviluppo armonico della Liturgia papale, in piena sintonia con la Riforma Liturgica e nel radicamento della più significativa tradizione romana,  le “Trombe d’argento” vengono nuovamente usate nelle Celebrazioni più solenni del Sommo Pontefice al momento dell’ingresso nella Basilica di San Pietro. Al suono delle “Trombe d’argento” seguirà il canto del “Tu es Petrus” da parte della Cappella Musicale Pontificia detta “Cappella Sistina”.

martedì 16 novembre 2010

ENTRARE NEL MISTERO CELEBRATO MEDIANTE RITI E PREGHIERE

Convegno Diocesano: “La liturgia: tra competenza e carisma”
Soriano Calabro, 7 settembre 2010

Le ragioni di un titolo
“Entrare nel mistero celebrato mediante riti e preghiere”. Mi pare proprio che non possa esservi titolo più indicato per esprimere uno degli elementi che maggiormente qualifica la liturgia e che, insieme, riprende un orientamento di fondo della Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II, “Sacrosanctum Concilium” (cf. n. 48).
In effetti proprio di questo si parla quando si parla di liturgia: il complesso dei riti e delle preghiere mediante i quali ci è dato di accedere al mistero di Cristo, donato a noi per il tramite della Chiesa.
Vale la pena, pertanto, soffermarsi con calma su ciascuna delle espressioni contenute nel titolo della conferenza affidatami, durante la quale mi rifarò sovente al pensiero del teologo Ratzinger e al magistero di Benedetto XVI, soprattutto per il piacevole dovere, che sento urgente, di farmi interprete ed eco fedele del suo autorevole indirizzo liturgico. Indirizzo liturgico, quello di Benedetto XVI, che non appartiene all’ambito del “gusto personale”, che sarebbe pur rispettabile ma per ciò stesso non necessariamente condivisibile, bensì a un vero e proprio magistero da condividere con spirito di fede e genuino senso ecclesiale.

1. “Mistero celebrato”
La presenza attuale della nostra salvezza
Sappiamo bene che nella liturgia si rende presente in modo sacramentale il mistero della nostra salvezza. Colui che è risorto da morte, il Vivente, rinnova il sacrificio redentore per la potenza dello Spirito Santo. “Chi dunque salva il mondo e l’uomo? - ha affermato di recente Benedetto XVI -. L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio…” (Udienza generale, 5 maggio 2010).
Non si tratta, dunque, di ricordare qualcosa che il tempo ha relegato in un passato ormai per sempre confinato alle nostre spalle. Neppure si tratta di un insieme di riti, pur esteticamente belli, ma privi di vita e incapaci di comunicare salvezza. E nemmeno si tratta di un ritrovarsi insieme tra convenuti che condividono un ideale e che intendono crescere nella dimensione comunitaria. Si tratta piuttosto di una celebrazione in virtù della quale noi realmente entriamo in relazione con il mistero della nostra salvezza, con Cristo Signore, il Salvatore, che ci comunica la Sua stessa vita, la Sua grazia. Così il passato si rende attuale, il bello è una manifestazione reale della bellezza del Dio vivo, nuovi rapporti fraterni sono il frutto dell’opera del Signore nel cuore dell’uomo.
A mio avviso si rende urgente, ad ogni generazione cristiana, rinnovare la percezione di fede di una tale realtà, di una celebrazione che davvero è il tramite dell’incontro con il Signore, presente nell’oggi della vita e della storia. Mi colpisce sempre molto quanto le guide più avvedute dicono ai visitatori della basilica di San Pietro in Roma, quando si soffermano a contemplare il capolavoro di Michelangelo, “La Pietà”. Come si sa l’opera del grande artista è collocata dove attualmente ci si prepara per la celebrazione eucaristica ogni qualvolta è presente il Santo Padre. Ebbene, le guide fanno notare che le mani della Madonna sono aperte quasi a voler consegnare il corpo sacrificato di Gesù a coloro che osservano la scena. La Pietà era stata realizzata da Michelangelo come pala da altare e, dunque, destinata a fare da sfondo all’altare della celebrazione eucaristica. In tal modo il celebrante e l’intera assemblea potevano contemplare il gesto della SS. Vergine, nell’atto di donare il Salvatore alla sua Chiesa durante la celebrazione. Come è bello il richiamo di questo dettaglio artistico! Nella celebrazione della Messa proprio il Signore risorto da morte, nella sua parola, nel suo corpo e nel suo sangue si dona a noi perché possiamo entrare nel mistero della sua vita e, dunque, essere salvati.
Mi sia consentito, in proposito, di richiamare un altro dettaglio artistico della splendida basilica di San Pietro. E’ noto che il baldacchino sovrastante il grande altare della confessione è opera del Bernini. Se si osserva con attenzione il drappeggio che ricopre la parte alta del baldacchino si può notare che il disegno non risulta statico bensì capace di dare una chiara impressione di dinamicità. In altre parole sembra che quel drappeggio sia mosso da un soffio di vento, tanto delicato quanto deciso.
In tal modo l’artista ha inteso sottolineare quanto avviene al momento della preghiera eucaristica e, in specie, della consacrazione: lo Spirito Santo davvero scende sull’altare della celebrazione ed è l’artefice, insieme alle parole e all’azione di Cristo, della trasformazione sostanziale – ovvero la transustanziazione - del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore (cf. Catechismo della Chiesa cattolican. 1353). Lo Spirito datore di vita rende realmente presente il Signore Risorto nell’atto del suo sacrificio redentore. Ecco, espressa nell’arte, la realtà del mistero celebrato. Ora, qui, il Salvatore è presente e operante nel suo mistero di amore e di grazia. Diceva Giovanni Paolo II: “Poiché la liturgia è l’esercizio del sacerdozio di Cristo, è necessario mantenere costantemente viva l’affermazione del discepolo davanti alla presenza misteriosa di Cristo: «E’ il Signore!» (Gv 21, 7). Niente di tutto ciò che facciamo noi nella liturgia può apparire come più importante di quello che invisibilmente, ma realmente fa il Cristo per l’opera del suo Spirito” (Lettera Apostolica Vicesimus Quintus Annus, 10). Questa verità dell’atto liturgico deve essere sempre al centro della consapevolezza di fede di quanti partecipano alla celebrazione liturgica.
Il mistero sacro
Mi soffermo ancora un istante sulla parola “mistero”. E’ chiaro che con questo termine non si vuole intendere qualche cosa di oscuro, esoterico e inquietante. Si vuole piuttosto individuare l’opera salvifica di Dio, la cui luce è talmente abbagliante da risultare non del tutto comprensibile all’uomo: la ragione umana deve, a un certo punto del cammino, lasciare spazio alla fede per accedere al Vero. E’ proprio tale opera salvifica, come si diceva, che viene celebrata nella liturgia. Non, dunque, l’opera dell’uomo ha il primato nella celebrazione ma l’opera di Dio, l’evento pasquale di morte e risurrezione. Non si vuole certo misconoscere l’importanza dell’agire dell’uomo in liturgia; si vuole solo mettere nella giusta luce il rapporto di necessaria dipendenza dell’agire umano rispetto all’agire del Signore.
Così si è espresso, al riguardo, Benedetto XVI rivolgendosi ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile in visita “ad limina apostolorum”: «Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare - poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio - secondo "la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati” (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice» (15 aprile 2010).
E’ per questo che al termine “mistero” è necessario abbinare il termine “sacro”. Affermare la sacralità della liturgia significa ricordare la necessità di custodire con cura il mistero che in essa è celebrato. Sacralità liturgica è l’oggettività di quel mistero che, nella sua ripetitività, non smette di interessare l’uomo: in quanto gli dona ciò di cui realmente ha bisogno e lo salva, consentendogli di entrare nella vera gioia.
In questo senso l’accoglienza del mistero in vista della trasformazione e della conversione è il principale atto cui siamo chiamati nella celebrazione della liturgia. Questa, se così vogliamo chiamarla, è la più vera creatività che deve caratterizzare la vita del singolo e della comunità celebrante. Altre creatività, quando non previste dal rito e, lo si può ben dire, a volte selvagge, distolgono dalla verità della celebrazione e rischiano di essere solo l’espressione di un’auto celebrazione, personale o comunitaria, che perde di vista il soggetto primo della liturgia, che è Dio.
Nell’indirizzo alla Conferenza Episcopale Cilena, il 13 luglio del 1988, il cardinale Ratzinger si esprimeva così, al riguardo: “…dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi da soli non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole. L’essenziale nella liturgia è il Mistero, che è realizzato nella ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il Mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico”.
In questo contesto non è da sottovalutare la questione inerente le rubriche liturgiche e, più in generale, la normativa che interessa la liturgia. La norma liturgica, infatti, è la custode più prossima del mistero celebrato. Quanto la norma afferma garantisce l’unità rituale e, di conseguenza, è capace di dare espressione alla cattolicità della liturgia della Chiesa. Al contempo, la norma veicola un contenuto liturgico e di fede che una secolare tradizione e una comprovata esperienza ci hanno consegnato e che non è lecito trattare con superficialità e inquinare con la nostra povera e limitata soggettività. Sta qui il fondamento di quell’osservanza che a più riprese viene riproposta nel magistero pontificio, presente e passato. “Dato che le azioni liturgiche non sono azioni private, ma «celebrazioni della Chiesa quale sacramento di unità» (Sacrosanctum Concilium, 26) - affermavaGiovanni Paolo II -, la loro disciplina dipende unicamente dall’autorità gerarchica della Chiesa (cfr.Sacrosanctum Concilium, 22 e 26). La liturgia appartiene all’intero corpo della Chiesa (cfr.Sacrosanctum Concilium, 26). E’ per questo che non è permesso ad alcuno, neppure al sacerdote, né ad un gruppo qualsiasi di aggiungervi, togliervi o cambiare alcunché di proprio arbitrio (cfr. Sacrosanctum Concilium, 22)” (Lettera Apostolica Vicesimus Quintus Annus, 25).
“La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, - ha affermato Benedetto XVI, parlando all’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, il 15 giugno di quest’anno - favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente. Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi. Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede secondo l’antico principio lex orandi - lex credendi. E per questo possiamo dire che “la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata” (Sacramentum caritatis, 64)”.
Si rende, pertanto, necessario un atteggiamento equilibrato, capace di conservare come complementari e necessarie la prospettiva simbolico-rituale e quella canonico-disciplinare. Non l’una senza l’altra, ma l’una con l’altra.

2. “Entrare”
Il significato di un verbo
Il verbo scelto come parte del titolo è un verbo importante. Anche perché ci conduce al grande tema della partecipazione alla celebrazione liturgica: tema che appassiona e ispira, a volte porta a discutere e, a mio parere, anche a inutili polemiche e divisioni. Chi di noi, infatti, non desidera che la liturgia possa essere realmente partecipata da tutti? Soprattutto da quando la Sacrosanctum Concilium e, sulla scia di essa, la riforma avviata dal Vaticano II e il successivo magistero pontificio hanno giustamente insistito per la più ampia e autentica realizzazione di tale partecipazione? D’altra parte, se ci sta a cuore la vita della Chiesa e l’incontro di ogni uomo con Cristo Salvatore, possiamo forse non desiderare che tutti partecipino alla sacra liturgia con il maggior frutto possibile?
Su questo, pertanto, direi che sia difficile avere pareri diversi. La disparità di vedute può avere inizio quando si tratta di meglio specificare che cosa si intenda per partecipazione, ovvero quali siano le modalità più adeguate per entrare nel mistero celebrato. E si sa come, al riguardo, si continuino spesso a fronteggiare due diversi modi di considerare il termine in questione. Come sempre nella dottrina cattolica, anche in questo caso, non c’è spazio per l’“aut aut”, ovvero per l’esclusione di un aspetto a favore di un altro, ma per l’“et et”, ovvero per la presenza complementare e arricchente dei diversi aspetti.
Entrare in una realtà, partecipare a un avvenimento è sempre un’esperienza che coinvolge l’uomo in ogni sua dimensione: intelligenza, volontà, emozione, sentimento, azione… L’esteriorità dell’agire e il suo fondamento interiore risultano complementari e necessari. Così è per la vita liturgica. Proprio perché è esperienza vitale non può che riguardare l’intera complessità della persona umana. Se, dunque, ad esempio, vi è una partecipazione che avviene per via di comprensione di un testo, vi è anche una partecipazione che avviene per via di un innalzamento dell’animo prodotto dall’incontro col bello. E se si partecipa mediante l’azione, è possibile realizzare una vera partecipazione anche mediante un silenzio solo in apparenza inoperante.
Nel mistero celebrato, di conseguenza, si entra con tutta la complessità del nostro essere persone umane. Ed è per questo che la liturgia ricerca sempre quel sano equilibrio di componenti che diano la possibilità di un’esperienza che si addica a tutto l’uomo e ad ogni uomo.
Non mi pare che, sempre, nella pratica liturgica questo trovi felice ed equilibrata realizzazione. E mi pare altresì che, per la legge del pendolo, se un tempo la mancanza di partecipazione adeguata poteva essere addebitata a un difetto di comprensione e di azione, oggi tale mancanza possa essere addebitata a un eccesso di comprensione razionale e di azione esteriore, cui non sempre fanno sufficiente complemento la comprensione del cuore e l’attenzione all’agire interiore, al rivivere in sé i sentimenti e i pensieri di Cristo.
Entrare nell’agire di Cristo
Approfondiamo ancora un po’ la questione, a partire dall’indirizzo chiaro formulato dalla Costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).
A commento di questo brano magisteriale rimane sempre illuminante quanto affermato dal cardinale Ratzinger nel suo volume “Introduzione allo spirito della Liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità… Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio… Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, chel’actio umana… passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (pp. 167-168).
Nella celebrazione liturgica ciò che precede e costituisce il fondamento è l’agire di Cristo e della sua Chiesa; infatti, come ci ricordava Giovanni Paolo II, “…la liturgia ha come primo compito quello di ricondurci instancabilmente sul cammino pasquale aperto da Cristo, in cui si accetta di morire per entrare nella vita” (Lettera Apostolica “ Vicesimus Quintus Annus, 6). Di conseguenza, entrare nell’atto liturgico significa entrare dentro questo agire che dona salvezza e trasforma la vita. Si partecipa, dunque, nella misura in cui l’atto del Signore e della sua Chiesa diventa anche il nostro stesso atto, la sua oblazione di amore diventa la nostra, il suo abbandono filiale e obbediente al Padre diventa anche nostro, se il sacrificio del Redentore diventa il nostro stesso sacrificio.
Affermava Divo Barsotti in un suo celebre testo: “E’ proprio della Liturgia cristiana di trascendere l’attività di ogni uomo e di tutta l’umanità nell’essere Atto stesso del Cristo; ma la Liturgia trascende ogni attività umana senza escluderla, anzi impegnandola tutta fino in fondo, non soltanto in quanto la supera, ma in quanto anche la esige e la comprende” (Il mistero della Chiesa nella Liturgia,edizioni San Paolo, p. 158)
Come avviene sempre in ciò che è umano, anche nel rito liturgico l’agire ha una dimensione esteriore e una interiore. Il gesto di Cristo è un gesto visibile, espressione di un gesto invisibile. Pertanto l’atto di entrare nel mistero avrà anche la componente esteriore del gesto, non c’è dubbio. Ma perché tale componente non rimanga pura e sterile esteriorità dovrà essere animata e allo stesso tempo condurre a quell’agire interiore in cui vi è conformazione all’agire di Cristo e della sua Chiesa.
Sia dia spazio, dunque, all’azione esteriore in Liturgia, laddove il rito lo consente e lo auspica. Ma senza dimenticare che tale azione dovrà essere sempre ricondotta alla sua verità di espressione dell’agire interiore. Solo così vi sarà un autentico accesso al mistero celebrato.

3. “Mediante riti e preghiere”
Ciò che è stato detto in merito all’entrare nel mistero ha avuto una fisionomia di carattere generale. Ora, attraverso la menzione dei riti e delle preghiere, il titolo ci consente di entrare in un ambito più specifico, ovvero nel modo tipico della liturgia di rendere accessibile la partecipazione al mistero celebrato.
Riti e preghiere, nella liturgia, si sostengono a vicenda e a vicenda si illuminano proprio al fine di far vivere la celebrazione. Il rito rimarrebbe privo di luce senza la preghiera che lo illustra; la preghiera rimarrebbe priva di efficacia senza il rito che la mette in atto. La celebrazione liturgica, pertanto, richiede quella fede in virtù della quale non si rimane estranei alla preghiera come neppure al rito.
Non per nulla la tradizione della Chiesa ha sempre tenuto in gran conto le famose catechesi mistagogiche degli antichi padri. Si tratta esattamente di catechesi che, rifacendosi alle preghiere e ai riti, introducono i fedeli alla conoscenza e all’esperienza del mistero celebrato. Di tali catechesi si sente una grande necessità per il tempo presente. Infatti, la rarefazione della cultura cristiana, come orientamento di fondo appreso dalla giovane età e largamente condiviso nel contesto sociale, porta a una forma grave di “ignoranza” rispetto ai riti e alle preghiere della liturgia. E non si può chiedere alla liturgia ciò che essa non può dare: la catechesi. Non c’è dubbio: la liturgia la si impara anche vivendola. Ma rimane pur necessaria quella catechesi che è anche avviamento all’esperienza liturgica, introduzione ai divini misteri.
Quanto si sentiva come compito urgente già ai tempi del Concilio Vaticano II, mi pare che rimanga nel presente, forse con una nota di urgenza ancora maggiore: la formazione. Solo grazie a una vera formazione liturgica i riti e le preghiere della celebrazione potranno essere il tramite bello e straordinariamente ricco per entrare nel mistero celebrato. Altrimenti si rischia di rimanere sulla soglia di una realtà inaccessibile.
D’altra parte, è bene non dimenticarlo, la celebrazione liturgica realizzata secondo verità e in conformità a quell’“ars celebrandi” di cui il Santo Padre Benedetto XVI ci parla nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, ovvero in piena conformità alle indicazioni della Chiesa, è già di per sé una vera e propria scuola, capace di introdurre alla conoscenza e all’esperienza del mistero di Cristo. Pertanto, riti e preghiere celebrati bene sono autentica introduzione alla spirito della liturgia.
Non è, però, mia intenzione entrare nel dettaglio dei riti e delle preghiere, quanto piuttosto soffermarmi a considerare alcuni aspetti dell’atto celebrativo che aiutano a entrare nella sacra liturgia, nei suoi riti e nelle sue preghiere. Gli aspetti considerati saranno solo alcuni, quelli che a me pare sia più importante e urgente sottolineare e spiegare nell’attuale contesto storico. Questo certamente non vuol dire sminuire l’importanza di altri. Ma tutto non si può dire e bisogna dare qualche priorità.
Il sacro silenzio
Una liturgia ben celebrata, in diverse sue parti, prevede una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento. Si ricordi, in proposito, quanto afferma l’Ordinamento Generale del Messale Romano: “Si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica” (n. 45).
L’Ordinamento Generale non fa che esplicitare quanto la Sacrosanctum Concilium formulava in termini più generali: “Si osservi a tempo debito il sacro silenzio” (30).
E’ da notare che in entrambi i testi citati si parla di “silenzio sacro”. Il silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo e il successivo. E’ da considerarsi piuttosto come un vero e proprio momento rituale, complementare alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto...
Da questo punto di vista, ci è dato di meglio capire il motivo per cui durante la preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il popolo di Dio riunito in preghiera segue nel silenzio la preghiera del sacerdote celebrante. Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel significato di quel momento rituale che ripropone nella realtà del sacramento l’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita.
Così il silenzio liturgico è davvero sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. Non è forse questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?
Se tutto questo è il senso del silenzio in liturgia, non è forse vero che e le nostre liturgie hanno bisogno di più spazio per il sacro silenzio?
La nobile bellezza
Afferma Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).
Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza, di minimalismo e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).
Il crocifisso al centro dell’altare
Nel suo testo “Le festa della fede”, la cui prima edizione risale al 1981, il cardinale Ratzinger si poneva il problema dell’orientamento nella celebrazione liturgica. Riportare alcuni brani del suo testo, mi pare il modo più immediato per capire l’importanza della sua riflessione e della sua proposta.
“Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo espressione cristologia, ma indice pure della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La croce dell’altare si può qualificare come un residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata al simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce sull’altare non è…un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento…Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione «versus populum». Diverrebbe così ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione - «conversi ad Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (pp. 131-135).
Alla luce di queste limpide affermazioni si comprende meglio quanto sottolineato dal Santo PadreBenedetto XVI nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia e da poco uscito in Italia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.
L’adorazione
Che cosa intendiamo per adorazione? Certamente non si tratta di una relazione intellettuale o sentimentale con il mistero. La si potrebbe definire come il riconoscimento pieno di meraviglia della onnipotenza di Dio, della sua maestà intangibile, della sua signoria provvidente e misericordiosa, della sua bellezza infinita che è coincidenza di Verità e di Amore... E l’adorazione, quando è autentica, conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo... Tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. Adora e aderisce, adora per aderire.
Ascoltiamo ancora Divo Barsotti nell’opera già citata: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo…La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione” (Idem, pp. 174-175).
Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un istante su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte»” (Rivista Communio, 35/1977).
E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio diSacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).
Si può parlare al riguardo di una contraddizione rispetto all’incedere processionalmente, quale segno di un popolo che di dirige verso il suo Signore? La Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. Ancora una volta si tratta di complementarietà in vista di una ricchezza più grande e non di esclusione.
Anche alla luce di questo brano si capisce il motivo per cui il Santo Padre Benedetto XVI, in occasione della solennità del Corpus Domini del 2008, ha iniziato a distribuire la santa Comunione ai fedeli in ginocchio.
Il canto e la musica
Mi piace al riguardo partire da una citazione del papa san Gregorio Magno, nella quale si ritrova formulato con singolare profondità ed efficacia il nucleo centrale della musica e del canto in liturgia: “Quando il canto della salmodia risuona dalle profondità del cuore, il Signore onnipotente trova per esso una via di accesso ai cuori, per inondare colui che protende tutti i suoi sensi ad ascoltarLo dei misteri della profezia o della grazia della contrizione. Sta scritto infatti: ‘Un canto di lode mi onora, ed esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di Dio’ (Sal 49, 23). Ciò che in latino suonasalutare, salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode perciò viene creata una via di accesso, per la quale Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto dei Salmi viene riversata in noi la vera contrizione, si apre in noi una strada che conduce nel profondo del cuore, alla fine della quale si giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).
Così il canto e la musica in liturgia, quando sono nella verità del loro essere, nascono dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi dello stesso mistero, parola che nella nota musicale si apre sull’orizzonte della salvezza, di Cristo. Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non possono essere slegati dalla parola, quella di Dio, della quale invece devono essere interpretazione fedele e disvelamento. Il canto e la musica in liturgia partono dalle profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo abita, e riportano al cuore, vale a dire a Cristo che della domanda del cuore è risposta vera e definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della musica liturgica, che non dovrebbe mai essere consegnata all’estemporaneità superficiale di sentimenti e di emozioni passeggere non rispondenti alla grandezza del mistero celebrato.
E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla preghiera. Dunque, permettono a noi di entrare nel mistero, per tornare alla terminologia che è parte del titolo di questa conferenza. E qui, nel canto e nella musica, troviamo forse una delle vie più alte di ingresso e di partecipazione al mistero, capace di fare sintesi di tante altre componenti della partecipazione liturgica.
Mi sia consentito qui, parlando del canto e della musica, di fare brevemente cenno alla lingua latina. E’ risaputo quale straordinario tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli passati. E qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito perennemente valido, in sé e quale criterio per stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia sacra classica, forme di canto liturgico che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore artistico e di contenuto religioso, non può avere spazio nella celebrazione liturgica. Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciarti educare da ciò che lo deve ispirare?
Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare. Come non provare, al riguardo, una straordinaria esperienza di cattolicità quando nella basilica di San Pietro uomini e donne di tutti i continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la calda accoglienza della casa comune quando, entrando in una chiesa di un paese straniero può, almeno un alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?
Perché questo continui a essere concretamente possibile è necessario che nelle nostre chiese e comunità l’uso del latino sia conservato con la dovuta saggezza pastorale.

Conclusione
Come si diceva, nel considerare alcuni aspetti celebrativi è stata data qualche priorità. Sottolineare alcune priorità, mettere in luce alcuni problemi, prospettare possibili cambiamenti rientra nel desiderio di dare un contributo alla piena e autentica realizzazione della riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II. Per tutti noi tale riforma è stata ed è provvidenziale nel cammino storico della Chiesa, che si sviluppa e cresce in una logica di continuità e di organicità con il suo passato. Ma proprio perché si desidera che tale riforma, nella sua attuazione, sia pienamente fedele agli orientamenti conciliari e dia tutti i frutti sperati è anche lecito esaminare le problematiche suscitate nel tempo da talune asserzioni non sempre felici e da altre realizzazioni concrete non sempre del tutto ispirate. La vera fedeltà alla riforma voluta dal Vaticano II richiede che, mentre si promuove tutto ciò che è vero dono di rinnovamento, si prendano in esame con libertà di spirito, animo ecclesiale e senza preclusioni ideologiche i problemi esistenti. E’ uno stesso amore che tutti ci deve animare: quello per il Signore e per la sua Chiesa, quello per la liturgia, azione di Cristo e della Chiesa.

Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

sabato 13 novembre 2010

“L’ASSUNTA”

Celebrazioni per il sessantesimo anniversario della proclamazione
del dogma dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

Roma, Sala dei Cardinali, 29 0ttobre 2010


Se è vero, come è vero, che esiste nella Chiesa un rapporto intrinseco e vitale tra la “lex credendi” e la “lex orandi”, anche per la grande solennità dell’Assunta non si può fare a meno di radicare l’espressione liturgica sul dato fondante della fede.
Per questo motivo è quanto mai importante riascoltare le parole con le quali il Venerabile Pio XII, il 1° novembre del 1950, definì solennemente il dogma dell’Assunzione di Maria: «In tal modo - afferma il Papa - l’augusta Madre di Dio, arcanamente unita a Gesù Cristo fin da tutta l’eternità con uno stesso decreto di predestinazione, Immacolata nella sua Concezione, Vergine illibata nella sua divina maternità, generosa Socia del Divino Redentore, che ha riportato un pieno trionfo sul peccato e sulle sue conseguenze, alla fine, come supremo coronamento dei suoi privilegi, ottenne di essere preservata dalla corruzione del sepolcro e, vinta la morte, come già il suo Figlio, di essere innalzata in anima e corpo alla gloria del Cielo, dove risplende Regina alla destra del Figlio suo, Re immortale dei secoli» (Cost. ap. Munificentissimus DeusAAS 42 (1950), 768-769).
Con tale definizione Pio XII dava forza dogmatica a quanto il popolo cristiano fin da subito aveva affermato di credere, anche per il tramite della preghiera e della liturgia. In effetti, già nel V secolo è attestata a Gerusalemme, nel calendario Gerosolimitano, la memoria di una festa mariana il 15 agosto. Sarà proprio questa ricorrenza liturgica che si trasformerà, ben presto, da memoria generica della Madre di Dio a celebrazione della sua Assunzione.
Ma non è mio compito, in questa sede, né approfondire il dato di fede da un punto di vista teologico, né considerare il percorso storico della festività mariana lungo i secoli. Mi è richiesto, piuttosto, di addentrarmi nell’espressione liturgica di questa grande solennità mariana, senza dimenticare l’orizzonte di fede da cui essa promana.
1. L’immagine del cielo
Al riguardo mi servo di un’immagine molto bella e suggestiva che, in modo ricorrente, il Santo Padre Benedetto XVI usa per illustrare il significato profondo della liturgia della Chiesa. Mi riferisco all’immagine del cielo che si affaccia sulla terra e della terra che viene come rapita verso il cielo. L’immagine citata, nella sua duplice direzione, appare quanto mai appropriata e vera proprio per la ricorrenza liturgica dell’Assunta. I brani della Scrittura che la Chiesa offre al nostro ascolto il 15 agosto, come anche l’eucologia, ovvero l’insieme delle preghiere che danno forma e accompagnano la celebrazione, sono la testimonianza più eloquente di quanto si va affermando. E, d’altra parte, non adombra forse proprio questa immagine dell’attuale Pontefice la definizione di Pio XII, che proclama Maria Santissima “innalzata in anima e corpo alla gloria del cielo”?
Vale la pena ricordare che con il termine “cielo” non si vuole certo fare riferimento a un qualche luogo dell’universo geograficamente posto sopra di noi. Ci riferiamo a una realtà molto più bella e più grande: a Dio che, nel suo infinito amore per noi, a noi si è fatto vicino a tal punto da non abbandonarci neppure dopo la morte. Così quando diciamo “cielo” diciamo il mondo di Dio e della sua eternità, il mistero della morte e risurrezione del Signore nel quale, per grazia, siamo introdotti tutti noi. “Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”, ci ricorda San Paolo nel brano della Prima Lettera ai Corinzi, proprio il 15 agosto. Come affermava il Venerabile Giovanni Paolo II, “col mistero dell'assunzione al Cielo, si sono definitivamente attuati in Maria tutti gli effetti dell'unica mediazione di Cristo Redentore del mondo e Signore risorto” (Lettera EnciclicaRedemptoris Mater, 41).
Tuttavia questo non basta ancora a illustrare il significato del termine “cielo”. Infatti, è proprio del “cielo” della nostra fede accogliere per intero la nostra vita. Affermava Benedetto XVI nell’omelia per la solennità dell’Assunta di quest’anno: “Esistiamo nei pensieri e nell’amore di Dio. Esistiamo in tutta la nostra realtà, non solo nella nostra «ombra». La nostra serenità, la nostra speranza, la nostra pace si fondano proprio su questo: in Dio, nel Suo pensiero e nel Suo amore, non sopravvive soltanto un’«ombra» di noi stessi, ma in Lui, nel suo amore creatore, noi siamo custoditi e introdotti con tutta la nostra vita, con tutto il nostro essere nell’eternità. E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio”.
2. Il cielo che si affaccia sulla terra e la terra che viene rapita verso il cielo
Alla luce di quanto fin qui detto, si possono considerare tre immagini bibliche, offerte a noi dalla liturgia, per capire di più perché nella celebrazione dell’Assunta il cielo si affaccia sulla terra e la terra viene rapita verso il cielo.
“La donna vestita di sole”
La prima lettura della Messa del giorno, tratta dal libro dell’Apocalisse, si offre a noi così:  “Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza. Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle” (11, 19 – 12, 1).
La donna vestita di sole è Colei che è stata assunta in cielo in anima e corpo, definitivamente vittoriosa sul peccato e sulla morte. Con lei davvero il cielo si affaccia sulla terra e la liturgia risplende ancora di più per questa sua dimensione essenziale e costitutiva. Nella Messa vespertina nella vigilia della solennità la Chiesa ci fa riascoltare le parole dell’apostolo Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria: Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”. Queste parole, espressione di una sfida che è ormai vinta, riecheggiano nell’immagine dell’Assunta, per la quale oramai il male non ha più alcuna possibilità di vittoria e la morte non ha più alcun pungiglione. “L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” (I Cor 15, 26): ciò che è il “non” ancora” per noi è il “già” di Maria. E’ il suo cielo che si affaccia sul pellegrinaggio della nostra vita. E la nostra vita ritrova la gioia dell’orientamento verso il suo cielo, lo slancio per la lotta al peccato e a ogni forma di male, il desiderio dello splendore della grazia.
“La nuova Eva”
La Chiesa, nei Primi Vespri della solennità liturgica, canta: “Una donna ha chiuso la porta del cielo, una donna l’apre per noi. Maria, madre del Signore”.
In tal modo il cielo che si affaccia sulla terra dona ali d’aquila alla speranza della Chiesa, che prega così nella colletta della Messa vespertina nella vigilia della solennità: “O Dio, che volgendo lo sguardo all’umiltà della Vergine Maria l’hai innalzata alla sublime dignità di madre del tuo unico Figlio fatto uomo e oggi l’hai coronata di gloria incomparabile, fa’ che, inseriti nel mistero di salvezza, anche noi possiamo per sua intercessione giungere fino a te nella gloria del cielo”. E’ la stessa Chiesa che nel prefazio della Messa del giorno ancora canta: “Oggi la Vergine Maria, madre di Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, è stata assunta nella gloria del cielo. In lei, primizia e immagine della Chiesa, hai rivelato il compimento del mistero della salvezza e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza”.
In Maria, la nuova Eva, primizia e immagine dell’umanità rinnovata dalla salvezza, il cielo viene a noi, come anticipazione di ciò che tutti desideriamo e speriamo, pregustazione di quella bellezza perduta e sempre ricercata che è la santità.
Il testo eucologico citato, facendo riferimento a Maria coronata, intende rinviare all’altra festa mariana del mese di agosto, quella della Beata Maria Vergine Regina, oggi collocata nel calendario liturgico sette giorni dopo la solennità dell’Assunta. In tal modo siamo indotti a ricordare che, in cielo, Maria è Regina degli Angeli e dei Santi e che, in virtù di tale posizione unica, del tutto singolare è pure la sua forza di intercessione presso Dio a nostro favore. Anche per questo guardare all’Assunta significa perciò stesso ritrovare e accrescere la speranza.
“La benedetta fra le donne”
Quali sono le radici della vittoria sulla morte anticipata in Maria? Non è un caso che la pagina del vangelo di Luca proclamata nel giorno dell’Assunta, in entrambe le forme del Rito Romano, sia quella nella quale la SS. Vergine è dichiarata beata a motivo della sua fede. “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, esclama a gran voce Elisabetta all’indirizzo della più giovane cugina.
Le radici di quella prodigiosa vittoria stanno proprio nella fede della Vergine di Nazareth. Una fede che è obbedienza alla Parola di Dio e abbandono totale all’iniziativa e all’azione divina. Così l’assunzione della Madonna è il coronamento della sua fede, di quel cammino di fede che Ella indica alla Chiesa e a ciascuno di noi, di quel cammino che introduce già ora spazi di cielo su questa nostra terra, perché rende la dimora degli uomini un po’ più simile alla dimora eterna di Dio verso la quale siamo incamminati.
Recitando la preghiera del “Padre nostro”, ogni volta ripetiamo la grande invocazione: “…venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. Il regno di Dio viene a noi, uno spazio di cielo si apre alla nostra contemplazione nella misura in cui in terra si compie la volontà di Dio, si vive nella fede l’obbedienza filiale alla volontà del Signore. Maria, in virtù della sua fede esemplare apre le porte del cielo e noi avvertiamo il desiderio di percorrere il suo stesso cammino di fede perché la terra della nostra vita possa essere già una pregustazione del cielo.
3. Le espressioni della pietà popolare
Ad arricchimento di quanto affermato, mi pare a questo punto significativo ricordare alcune manifestazioni della pietà popolare sorte nel tempo attorno alla solennità liturgica dell’Assunta. Ritengo importante questo arricchimento conclusivo, considerando il modo in cui si esprime ilDirettorio su Pietà popolare e Liturgia: “Nell’affermare il primato della Liturgia, «culmine a cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosanctum Concilium, 10), il Concilio Ecumenico Vaticano II ricorda tuttavia che «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola Liturgia» (12). A conferma di ciò, in questo contesto è certamente significativo ricordare l’insegnamento sempre valido del Venerabile Pio XII nella Lettera enciclica sulla Liturgia Mediator Dei, il 20 novembre 1947: “Senza dubbio la preghiera liturgica, essendo pubblica supplica dell’inclita Sposa di Gesù Cristo, ha una dignità maggiore di quella delle preghiere private; ma questa superiorità non vuol dire che fra questi due generi di preghiera ci sia contrasto od opposizione. Tutti e due si fondano e si armonizzano perché animate da un unico spirito… e tendono allo stesso scopo” (n. 31).
Non si dimentichi, infine, quanto Benedetto XVI ha scritto di recente riguardo alla pietà popolare, rivolgendosi ai Seminaristi di tutto il mondo: “Attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere. Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa. La fede si è fatta carne e sangue. Certamente la pietà popolare deve essere sempre purificata, riferita al centro, ma merita il nostro amore, ed essa rende noi stessi in modo pienamente reale «Popolo di Dio»” (Lettera ai Seminaristi, 18 ottobre 2010).
Vengo così a ricordare due manifestazioni della pietà popolare che, in definitiva, se vissute correttamente, scaturiscono dalla liturgia dell’Assunta e a essa riconducono.
- Storicamente, a dare un particolare rilievo alla festività dell’Assunta contribuì certamente “la processione ordinata da Papa Sergio, che a Roma si svolgeva con una solennità e uno splendore incomparabili - come ricorda il Righetti, nella sua “Storia liturgica” - e nella quale la famosa immagine acheropita del Salvatore veniva portata dal Laterano alla basilica di Santa Maria Maggiore”. La processione, a motivo di vari abusi che si erano verificati nel corso del tempo, venne abolita al tempo di Pio V. Tuttavia essa è rimasta in molti luoghi dell’Italia, specialmente del Lazio, che l’avevano imitata da Roma. La sera della vigilia si formano due processioni, una con l’immagine del Salvatore, l’altra con quella della Santa Vergine, che muovono una incontro all’altra. Quando i due cortei si incontrano, i portatori delle due immagini si scambiano il segno della pace, il celebrante offre l’incenso alle sante immagini, il Cristo prende la destra, la Vergine la sinistra. E così, in processione, si va alla chiesa intitolata alla Madonna, dove il rito termina con una solenne benedizione.
Non è difficile scorgere in questa duplice processione che si compie nell’incontro delle due sacre immagini, l’espressione popolare della verità circa il radicamento nel mistero di Cristo dell’Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo. E, d’altra parte, l’ingresso congiunto delle due immagini nella chiesa richiama l’ingresso in Paradiso della SS. Vergine, in definitiva, lo spalancarsi del cielo sulla terra.
- L’altra manifestazione della pietà popolare degna di nota è quella delle benedizioni, ad esempio, dei fiori e delle erbe medicinali che, fin dal secolo X, almeno nelle regioni del nord Europa, era abituale compiere il giorno della solennità dell’Assunta. Nelle Alpi francesi e austriache, invece, il 15 agosto o uno dei giorni seguenti, i sacerdoti andavano a cavallo per benedire i pascoli e il bestiame raccolto attorno a una croce decorata di fiori. Sulle coste del Mediterraneo e dell’Atlantico, infine, si procede alla benedizione del mare e dei pescherecci. Sono questi tanti e diversi modi di invocare la protezione di Maria sulla vita quotidiana e sul lavoro dell’uomo e di ricordare, in modo molto semplice, che là dove l’Assunta si rende presente il cielo si affaccia sulla terra e la terra viene rapita verso il cielo.
Vale la pena, forse, tenendo presenti queste manifestazioni della pietà popolare, ricordare quanto afferma il Concilio Vaticano II, a proposito della SS. Vergine: “Assunta in cielo ella non ha deposto questa missione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni della salvezza eterna” (Lumen Gentium, 62).
Conclusione
In tal modo ciò che la preghiera della Chiesa esprime nella celebrazione liturgica della solennità dell’Assunta si ritrova, in forma molto semplice, nelle diverse manifestazioni della pietà popolare che hanno preso forma lungo i secoli. Come affermava Papa Paolo VI nella Marialis cultus: “La solennità del 15 agosto è la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo Verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo Risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: che tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli” (n. 6). Tutto converge nell’immagine del “cielo” al quale l’Assunzione di Maria in anima e corpo ci rimanda. Un cielo che si affaccia sulla terra per essere contemplato nel gaudio della fede, un cielo che diventa richiamo a ciascuno di noi perché affrettiamo il cammino che lì ci conduce.
Può essere suggestiva sintesi conclusiva della ricchezza liturgica dell’Assunzione di Maria, la bellissima preghiera che San Germano, vescovo di Costantinopoli nel secolo VIII, rivolgeva alla Madonna in un discorso tenuto per la festa dell’Assunta: “Tu sei Colei, che per mezzo della tua carne immacolata ricongiungesti a Cristo il popolo cristiano… Come ogni assetato corre alla fonte, così ogni anima corre a Te, fonte di amore, e come ogni uomo aspira a vivere, a vedere la luce che non tramonta, così ogni cristiano sospira ad entrare nella luce della Santissima Trinità, dove Tu sei già entrata”.

Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie


venerdì 15 ottobre 2010

PREPARATIVI PER IL VIAGGIO APOSTOLICO A BARCELLONA


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Monsignor Guido Marini, maestro delle cerimonie del Santo Padre ha visitato Barcellona in questi giorni per finalizzare i dettagli della cerimonia della dedicazione del tempio Sacra Famiglia , Domenica 7 novembre.


Mons. Marini, accompagnato dal Cardinale Lluís Martínez Sistach, ha visitato il tempio della Sacra Famiglia e il Centro sociale "Nen Deu." Hanno anche stabilito gli ultimi dettagli del libretto da dare ai fedeli che parteciperanno all'evento sia all'interno che all'esterno del Tempio dove avranno posti a sedere e schermi giganti per seguire la cerimonia. Dobbiamo ricordare che per accedere a questo spazio sarà necessario presentare l'invito. Le persone potranno vedere il Santo Padre per tutto il tour proseguirà in "papamobile" per queste strade: Av. Cattedrale , Via Laietana, Pau Claris, Marina Diputació su e giù per questa strada fino alla Sagrada Familia.
In questa cerimonia, il Santo Padre utilizzerà il catalano, il castigliano e il latino.  
Barcellona, 13 ottobre 2010

N.B. Traduzione nostra.

sabato 9 ottobre 2010

E' DALLA LITURGIA CHE SI OTTIENE LA GRAZIA CHE CI SALVA!



Per il Cerimoniere del Santo Padre, la liturgia è intrinsecamente legata alla spiritualità, questo si riflette nelle nomine e le considerazioni di Papa Benedetto XVI sulla questione. In questa intervista esclusiva a Gaudium Press di Roma, monsignor Guido Marini parla di riforma, la giustificazione e la fedeltà liturgica.
N. B. Traduzione nostra.

Gaudium Press - In che modo la Chiesa cattolica comprende la liturgia dopo il Concilio Vaticano II? Il Santo Padre durante il suo recente viaggio in Inghilterra, nella cattedrale di Westminster ha parlato l'entità del sacrificio.

Penso che ci siano due aspetti della celebrazione eucaristica, in cui uno deve essere collegato agli altri. Infatti, come dicono i documenti del Magistero, la Messa è il rinnovamento del sacrificio del Signore e nello stesso tempo, è anche il tempo, il luogo in cui viene comunicato il sacrificio a noi attraverso il segnale convinzione. Quindi penso che ci sono due elementi, entrambi fondamentali per la comprensione della celebrazione eucaristica. Credo anche che la dimensione sacrificale è una dimensione della fondazione. Perché se non ci fosse il sacrificio redentore, non ci sarebbe alcuna possibilità di comunicare questo sacrificio e così entrare in comunione con la salvezza che ci è stato data dal nostro Signore Gesù. Penso che questa sia la visione che la Chiesa trasmette attraverso il suo insegnamento, e che ci porta al vero cuore della liturgia.

GP - Il Santo Padre si riferisce anche alla questione della giustificazione. Siempre hablando sobre liturgia, sempre parlando di liturgia, come la Chiesa cattolica presenta la questione della giustificazione in Cristo?

Nel campo della liturgia, proprio perché ripropone, presenta, attualizza  il mistero della salvezza, cioè, il Signore morto e risorto per noi, è anche presentato come il momento della giustificazione dell' umanità e dell'uomo. Perché sappiamo che l'uomo è salvato solo in virtù di questo mistero di morte e resurrezione. Naturalmente, dopo ogni deve essere appropriato personalmente, soggettivamente, questa giustificazione è stata data. Quindi penso che entrambi gli aspetti sono importanti, fondamentali per partecipare alla liturgia. Da un lato è un dono, che è il dono della salvezza, e quindi il mistero che si rinnova. Inoltre, questo dono deve essere, tuttavia, accolto con favore nella vita di ciascuno e la vita deve diventare vita. Poi, c'è sempre il rapporto tra dono e responsabilità, giustificazione e motivazione della vita dell'ospite.

GP - L'allora professor Ratzinger nei suoi scritti parla di riforma, la riforma della liturgia. Come si fa a vedere questa richiesta di riforme, i cambiamenti nella liturgia? In realtà, alcune modifiche sono già state introdotte da papa Benedetto XVI.

Quando a volte si è parlato e si è usato il termine "riforma della riforma" si rischia di essere "fraintesi". Poiché non tutti capiscono lo stesso e non tutti vogliono capire allo stesso modo. Io credo che, oltre alle frasi dette, ciò che è importante è che la riforma che il Concilio Vaticano II ha cominciato ad essere effettivamente realizzata, in modo globale, secondo gli insegnamenti del Concilio, che ha messo la liturgia in tutta la sua continuità con la tradizione e nello stesso tempo con l'approccio di uno sviluppo organico. La prestazione concreta della riforma dopo il Concilio Vaticano II non è sempre felice. Esattamente il motivo è che può essere necessario apportare delle modifiche, cambiamenti, qualche miglioramento, solo per agire in modo globale alle linee guida del Concilio e fare in modo che appaia sempre più evidente con lo sviluppo della liturgia della Chiesa che si trova in continuità organica con il suo predecessore.
GP - Una delle indicazioni del Vaticano II, non realizzata in pratica, è stato il desiderio di movimento liturgico nella Chiesa, soprattutto in Germania e in Francia. Ora, come va questa esigenza nella pastorale liturgica?

Il Papa stesso, ancora cardinale, aveva voluto un nuovo movimento liturgico che creerebbe le condizioni, le basi, lo sviluppo interiore, l'approfondimento della vita liturgica della Chiesa. Así como fue antes del Concilio Vaticano II. Proprio come lo era prima del Concilio Vaticano II. Anche qui ci sono diversi modi di vedere, di estendere le relazioni tra il movimento liturgico, prima del Concilio, con il movimento liturgico che continua con interesse  più significativo, forse rinnovato.Penso che la vita liturgica della Chiesa conosce un fioritura, se c'è un terreno che è in grado di fiorire. Penso che sia importante amare la liturgia e anche vivere con fedeltà alle direttive della Chiesa, per diventare, in qualche modo, il grande movimento liturgico che possa poi portare frutto per la vita liturgica della Chiesa.

GP - Il Santo Padre durante l'udienza generale il 29 settembre ha detto che "La liturgia è una grande scuola di spiritualità". Cosa dire al Papa?

Penso che intendeva dire che la spiritualità cristiana è nata dalla liturgia e la liturgia è in crescita. Penso che la spiritualità è inconcepibile al di fuori del contesto liturgico. Proprio perché è la liturgia, dalla quale abbiamo la grazia che ci salva, ed è nella liturgia che noi cresciamo nella grazia che ci salva. Abbiamo trovato il Signore vivente, presente nella Chiesa, operante nella sua Chiesa così in alto, proprio nella liturgia. Quindi, se questo manca, manca davvero la fonte di forza per qualsiasi spiritualità. Una vita spirituale vera, con una crescita della vita spirituale, un modo profondamente spirituale, è possibile solo in relazione con la liturgia.