lunedì 19 aprile 2010

LA LITURGIA COME FONTE DI SPIRITUALITA’ SACERDOTALE

Giornate di formazione liturgica per Clero e Laici

Rizziconi, Diocesi di Oppido - Palmi, 21 gennaio 2010



All’inizio di questo nostro incontro è bene fare chiarezza sul significato del tema che mi è stato affidato, con particolare riferimento al titolo scelto: “La liturgia come fonte di spiritualità sacerdotale”. I punti da chiarire mi pare che debbano essere due.

- Anzitutto ci si potrebbe chiedere: Che cosa si intende con “spiritualità sacerdotale”? Il discorso che si va affrontando riguarda solo i ministri ordinati? Oppure si deve pensare che non vi sia differenza tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio battesimale, in merito alla spiritualità liturgica?

Al fine di evitare qualunque fraintendimento, a queste domande è necessario rispondere subito. La risposta, oltre a sgombrare il campo da possibili equivoci, vuole mettere anche in luce i limiti entro i quali si muove la presente riflessione.

Non vi è dubbio: sacerdozio ministeriale e sacerdozio battesimale “differiscono essenzialmente e non solo di grado”, come ricorda il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium: “Il sacerdote ministeriale – infatti -, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa” (n. 11).

Non tutti, dunque, nella Chiesa hanno la stessa funzione. E vi sono alcuni, i ministri ordinati, che sono chiamati da Dio a operare nella persona di Cristo-Capo e a essere come “l’icona di Cristo Sacerdote (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1142).

La distinzione è chiara e fondamentale. Tuttavia, lo scopo che ci prefiggiamo oggi è piuttosto quello di considerare ciò che accomuna l’intero popolo di Dio nella celebrazione dei divini misteri e che sta a fondamento di quella condivisa spiritualità, che nel titolo è detta “sacerdotale”. In effetti, la liturgia è “azione di Cristo tutto intero” (cfr. CCC n. 1136) ed “è tutta la comunità, il Corpo di Cristo unito al suo Capo, che celebra” (CCC n. 1140). “Col lavacro del Battesimo, difatti, - affermava già Pio XII – i cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del «carattere» che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo” (Mediator Dei, n. 72).

Tutti insieme, in tal modo, ci ritroviamo ai piedi della croce per partecipare al sacrificio del Signore: per aderire con la nostra volontà alla volontà di Dio, in tutto e per tutto; per unire la nostra povera vita, sempre bisognosa di misericordia e di grazia, a quella di Gesù, così che, con Lui e per Lui, diventi un'offerta gradita a Dio, una cosa santa e sacra, piena di bellezza e di luce nonostante le ombre.

E’ giusto, allora, che da parte di tutti salgano al Signore quelle splendide parole che il sacerdote celebrante pronuncia, a nome dell’intera assemblea liturgica, ogni qualvolta si addentra nella grande preghiera eucaristica: “Ti rendiamo grazie per averci ammessi a compiere il servizio sacerdotale” (Preghiera eucaristica II).

- Un secondo punto da chiarire riguarda l’accostamento del termine “liturgia” all’altro termine “spiritualità”, considerando la prima come fonte della seconda.

Al riguardo è importante precisare quanto segue. Non esiste una vera spiritualità cristiana che non sia spiritualità liturgica, ovvero che non trovi nella liturgia la sua principale sorgente. Ma, nel momento in cui si intende approfondire il contenuto di detta spiritualità, non si può fare a meno di approfondire anche i grandi contenuti della liturgia. In altre parole: non è possibile definire i tratti della spiritualità che scaturisce dalla liturgia senza prima definire i tratti qualificanti della liturgia stessa. Che cosa è la liturgia? Quali sono gli elementi teologici e dottrinali che la caratterizzano?

Parlare di spiritualità senza rispondere a questi interrogativi significherebbe sganciarla dalla sua radice. E porterebbe a considerare semplicemente la dimensione emotiva, sentimentale e soggettiva della vita della fede. Dimensione da non sottovalutare, certamente, ma non primaria e non fondante la spiritualità cristiana che, prima di tutto, è disponibilità a lasciarsi plasmare dal mistero celebrato, adesione al dono della salvezza ricevuto nella Chiesa e attraverso la Chiesa.

Ecco il motivo per cui cercherò di considerare alcuni elementi di “spiritualità sacerdotale” a partire da alcuni elementi di teologia liturgica, ovviamente senza la pretesa di esaurire un tema tanto vasto e ricco.

Questo faremo non senza riferirci a Benedetto XVI, al suo insegnamento e al suo magistero, ricordando che in virtù del Sommo Pontificato egli è anche il “grande Liturgo”, alla cui “ars celebrandi”, proposta con delicata fermezza, è necessario guardare come esempio da seguire e imitare. Dico questo perché può capitare di ascoltare o leggere il pensiero di alcuni opinionisti che qualificano come “gusto personale” l’indirizzo liturgico del Papa. Lasciamo agli opinionisti il loro discutibile parere, e comportiamoci da discepoli autentici del Signore che amano la Chiesa e il Papa, desiderosi di essere fedeli al suo magistero, anche per quanto attiene alla liturgia.

Da ultimo, ancora quasi a modo di premessa, ricordo che nel corso della riflessione si darà un’attenzione privilegiata alla Santa Messa, che è senza dubbio la forma più alta della liturgia. Basti, al riguardo, ricordare quanto si dice nel decreto del Concilio Vaticano II sul ministero e la vita sacerdotale, Presbyterorum ordinis, al n. 5: “Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere d’apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua… Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione”.

1. La liturgia come presenza del mistero di Cristo

Nella costituzione conciliare dedicata alla sacra liturgia si dice: “Per realizzare un’opera così grande – poco prima si parlava dell’opera divina della salvezza -, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche”. E appena poco più avanti si afferma: “Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo” (Sacrosanctum concilium, n. 7).

In altre parole: la liturgia ha un grande e primo protagonista. Questi è il Signore risorto da morte, che riempie di sé e della sua opera di salvezza la Chiesa radunata nel suo nome. Vengono alla mente le absidi antiche, splendidamente decorate con immagini del Cristo Pantocratore o con altre immagini raffiguranti il mistero della salvezza. L’intenzione degli artisti, animati dalla fede, era chiara: rendere palpabile, anche attraverso il mezzo della rappresentazione artistica, la presenza avvolgente di Cristo nell’azione liturgica.

C’è una parola, molto breve ma ricchissima, che si addice particolarmente alla verità della celebrazione liturgica. Vi sono alcuni tempi forti durante l’anno in cui questa ritorna più sovente, ma sempre è ben presente nella consapevolezza di fede della Chiesa. La parola è “oggi”. Sì, proprio oggi Cristo è presente e vivo in virtù del rito liturgico; proprio adesso il Signore rinnova l’opera della salvezza mediante il sacrificio della Croce e l’evento della risurrezione; proprio qui si fa contemporaneo a noi colui che è il Salvatore del genere umano.

Non avrebbe senso parlare di esercizio del sacerdozio senza riferirlo alla presenza del mistero di Cristo, sommo ed eterno sacerdote, che riempie di sé e della sua presenza ogni atto liturgico. E non è senza conseguenze, per l’esercizio del nostro sacerdozio, tale verità fondamentale della vita liturgica della Chiesa. Proviamo a considerarne almeno alcune.

- La sacralità della liturgia

Affermare che la liturgia è sacra significa ricordare che essa ci precede, in quanto luogo della presenza viva del mistero di Cristo salvatore, affidato alla Chiesa perché ne sia la custode attenta e fedele. Il sacro, in questo senso, non è un’aggiunta dell’uomo all’azione di Dio. Il sacro è la stessa azione di Dio presente nel rito liturgico. Il sacro è lo stesso Cristo che si dona a noi nel contesto della celebrazione e che la Chiesa è chiamata a trasmettere con fedeltà nel tempo, attraverso lo scorrere delle generazioni.

E’ per questo motivo che, come affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

Affermare la sacralità della liturgia significa ricordare la necessità di custodire il mistero che in essa è celebrato. Sacralità liturgica è l’oggettività di quel mistero che, nella sua ripetitività, non smette di interessare l’uomo: in quanto gli dona ciò di cui realmente ha bisogno e lo salva.

Di conseguenza, esercitare il sacerdozio comune significa lasciarsi umilmente plasmare dal sacro liturgico, abbandonando la pretesa di plasmare la liturgia secondo la propria volubile soggettività. Il sacerdozio che siamo chiamati a vivere è creativo, senza dubbio. Ma non secondo quella creatività che manipola il dono ricevuto, quanto secondo quella creatività interiore che è capace di accogliere il dono in modo sempre nuovo e fecondo, in vista della trasformazione della vita.

- La bellezza della liturgia

Afferma Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).

Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. L’uso del bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti.

Ha a che fare tutto questo con la “spiritualità sacerdotale”? Senza dubbio, perché non vi può essere autentica spiritualità sacerdotale fondata sulla liturgia che non partecipi della bellezza del sacerdozio di Cristo, diventandone progressivamente un riflesso sempre più fedele e attraente per il mondo. Il mondo è assetato di bellezza e di tale bellezza la Chiesa è tramite nella misura in cui vive della bellezza del suo Signore. Una bellezza appresa, amata, esercitata anche attraverso la partecipazione liturgica al mistero della salvezza.

- Il tempo nella liturgia

E’ sempre Benedetto XVI a orientare la nostra riflessione: “Se è vero che i sacramenti sono una realtà che appartiene alla Chiesa pellegrinante nel tempo verso la piena manifestazione della vittoria di Cristo risorto – afferma il Papa in Sacramentum caritatis -, è tuttavia altrettanto vero che, specialmente nella liturgia eucaristica, ci è dato di pregustare il compimento escatologico verso cui ogni uomo e tutta la creazione sono in cammino… L’uomo è creato per la felicità vera ed eterna, che solo l’amore di Dio può dare. Ma la nostra libertà ferita si smarrirebbe, se non fosse possibile già fin d’ora sperimentare qualcosa del compimento futuro. Del resto, ogni uomo per poter camminare nella direzione giusta ha bisogno di essere orientato verso il traguardo finale. Questa meta ultima, in realtà, è lo stesso Cristo Signore vincitore del peccato e della morte, che si rende presente a noi in modo speciale nella Celebrazione eucaristica” (n. 30).

In tal modo, nell’esperienza liturgica l’uomo ritrova il significato del tempo e del suo scorrere. Il senso sta nella direzione verso la quale la storia è in cammino: Cristo Gesù. In lui l’umanità è strappata al dramma della mancanza di senso e all’oscurità di un percorso che si perde nella notte del nulla. Così si entra nella celebrazione liturgica con la pesantezza dell’esperienza dolorosa del tempo che fugge inesorabile e ci si ritrova anche da questo punto di vista salvati, perché resi capaci di capire la direzione della vita: il Signore che sarà tutto in tutti.

Lo stesso ritmo ciclico del tempo liturgico è grazia e scuola di vita. Ogni anno, il rinnovarsi dei misteri del Signore e della nostra salvezza, porta con sé il dono di un ingresso progressivo, per intensità, nella verità della fede, nella buona notizia dell’amore di Dio. Si capisce, allora, il motivo per cui, anche da questo punto di vista, la liturgia è fonte di “spiritualità sacerdotale”. Grazie all’atto liturgico, che annualmente riviviamo, approfondiamo la capacità di vivere il tempo da autentici discepoli del Signore: ricordando che l’esistenza è pellegrinaggio verso la patria, che tutto è animato dalla Provvidenza di Dio, che non c’è fatto della vita terrena che non possa essere posto in relazione con l’eternità. Partecipando del sacerdozio di Cristo diveniamo, per così dire, “sacerdoti del tempo”, vale a dire capaci di rendere al Signore, con offerta a lui gradita, il tempo della nostra vita.

- L’adorazione nella liturgia

Citiamo, al riguardo, ancora un passaggio dell’Esortazione Sacramentum caritatis: “Un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli. Penso, in senso generale, all’importanza dei gesti e della postura, come l’inginocchiarsi durante i momenti salienti della preghiera eucaristica. Nell’adeguarsi alla legittima diversità dei segni che si compiono nel contesto delle diverse culture, ciascuno viva ed esprima la consapevolezza di trovarsi in ogni celebrazione davanti alla maestà infinita di Dio, che ci raggiunge in modo umile nei segni sacramentali” (n. 65).

Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. La nobiltà, la bellezza, l’armonia, la capacità di trarre fuori dall’ordinario per farci entrare nello spazio sacro di Dio: questi, e solo questi sono i criteri ecclesiali in base ai quali discernere ciò che può essere accolto o non accolto nelle nostre liturgie.

Mi sia consentita una breve digressione in merito a un particolare delle liturgie papali. Mi riferisco alla decisione di Benedetto XVI, presa a cominciare dal “Corpus Domini” del 2008, di distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse. Ci è spiritualmente di aiuto, al riguardo, riascoltare un passaggio di Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).

Torniamo alla “spiritualità sacerdotale”, derivante dalla liturgia. Se l’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza misura, della sua signoria onnipotente e provvidente... Se, di conseguenza, l’adorazione conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo... Se l’adorazione è tutto questo, non sarà proprio nell’adorazione liturgica che ciascuno di noi eserciterà la “spiritualità sacerdotale”?

2. La liturgia come azione partecipata

Il Concilio Vaticano II, nella già citata Sacrosanctum concilium, si sofferma a considerare la necessità della partecipazione attiva dei fedeli alla Messa. “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

Parlando di partecipazione attiva alla celebrazione liturgica ci ritroviamo al centro del discorso intorno alla “spiritualità sacerdotale”, a tutti noi comune. Partecipazione attiva, infatti, richiama immediatamente l’esercizio consapevole del sacerdozio regale. E qui si pone subito la domanda di fondo: che cosa significa esercizio consapevole del nostro sacerdozio ?

Alla domanda si addice senza dubbio una risposta articolata, come articolata è la descrizione della partecipazione attiva nel documento conciliare. Eppure, proprio in quel documento, nel passo citato, ci è offerta la chiave di lettura per arrivare a una sintesi della questione. Potremmo dire così: si partecipa attivamente alla liturgia nella misura in cui l’azione liturgica è da noi partecipata.

Mi pare che, al riguardo, una riflessione del Card. Ratzinger, nel volume Introduzione allo spirito della liturgia, sia quanto mai illuminante: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità…Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio… Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana… passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (pp. 167-168).

Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo, così che la sua offerta d’amore al Padre diventi anche la nostra offerta. Solo quando questo accade si sta esercitando attivamente il proprio sacerdozio.

Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la celebrazione liturgica. Faccio riferimento ad esse perché, se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è fraintesa l’autentica partecipazione attiva. Di conseguenza, la vera educazione alla spiritualità liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma anche e soprattutto nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare.

San Tommaso, con la consueta chiarezza, afferma: “Il culto esterno è ordinato a quello interno. Ora il culto interno consiste nell’unione intellettiva e affettiva dell’anima con Dio. Perciò gli atti esterni del culto hanno applicazioni diverse secondo i diversi gradi di unione intellettiva e affettiva dei fedeli con Dio” (Summa Teologiae, I-II, q. 101, a. 2).

Ascoltiamo Benedetto XVI in un passo dell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis: “Gesù ci ha lasciato così il compito di entrare nella sua «ora»: «L’Eucaristia ci attira nell’atto ablativo di Gesù… veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione». Egli «ci attira dentro di sé»” (n. 11).

E aggiungo: non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita, così che essa diventi in qualche modo liturgica, servizio per il cambiamento del mondo. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di questa “coerenza eucaristica” l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.

E’ giusto affermare, in conclusione, che si ha la verifica della partecipazione attiva alla liturgia nel momento in cui cresce la personale adesione a Cristo, si rimane coinvolti nella dinamica dell’amore che si dona, la volontà personale si trasforma progressivamente nella volontà del Signore. Questo significa esercitare il proprio sacerdozio; questo significa “spiritualità sacerdotale”. Non per nulla coloro che hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi davvero attivamente sono i santi. La santità, come esito della vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione realmente viva alla liturgia della Chiesa, di un esercizio consapevole e pieno del proprio sacerdozio.

3. La liturgia tra dimensione discendente e ascendente

Se consideriamo con attenzione lo svolgersi della celebrazione eucaristica, ci rendiamo immediatamente conto di trovarci di fronte a due grandi momenti: la liturgia della parola e la liturgia eucaristica. Si tratta di due fasi del rito “così strettamente congiunte tra loro da formare un unico atto di culto” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 28). Infatti vi è un legame intrinseco tra la Parola di Dio e l’Eucaristia: tanto che la Parola letta e annunziata nella liturgia conduce all’Eucaristia come suo fine ultimo.

All’interno di tale unità fondamentale non passa però inosservata la distinzione dei due momenti. Da una parte, Dio si rivela, parla a noi per il tramite della Sacra Scrittura e dell’insegnamento autorevole del ministero ordinato. Dall’altra parte, presentando il frutto della terra e del lavoro, noi ci offriamo al Signore, per divenire una sola cosa con lui, in virtù della partecipazione al suo sacrificio redentore.

Due momenti, dunque, a costituire un unico rito, eppure caratterizzati entrambi da una specifica e prevalente dinamica: discendente il primo, ascendente il secondo.

Perché è importante ricordare questo dato di teologia liturgica? Perché un’autentica “spiritualità sacerdotale” non può prescindere da tale dato. La nostra vita di fede, in effetti, si svolge interamente tra una discesa e un’ascesa, il dono di Dio e la nostra risposta. Non siamo stati e non siamo noi a compiere il primo passo nella direzione del Signore. E’ sempre il Signore a compiere il primo passo verso di noi, rendendo possibile la nostra risposta.

Una tale dinamica della vita cristiana è bene impressa nel Santo Natale, che abbiamo da poco celebrato. Nel mistero dell’Incarnazione risplende il primato dell’amore di Dio per l’uomo. Nella carne del Figlio di Dio l’umanità è redenta e assunta fino al cielo, ma ciò si rende possibile perché prima il cielo è sceso in direzione dell’umanità.

La celebrazione liturgica, con la liturgia della parola, ci ricorda che un primo atteggiamento fondamentale dell’uomo di fede è quello dell’ascolto obbediente e della disponibilità ad accogliere con gratitudine e stupore il dono dell’amore di Dio, che è grazia (cfr. OGMR n. 55). La celebrazione liturgica, con la liturgia eucaristica, ci ricorda che l’altro atteggiamento fondamentale dell’uomo di fede è quello di rivolgersi al Signore, orientando a lui lo sguardo e la vita (cfr. OGMR n. 78).

Ecco così delineato un altro tratto di “spiritualità sacerdotale” derivante dalla liturgia. Tuttavia, perché la liturgia sia effettivamente luogo privilegiato per l’esperienza e l’apprendimento di questo, come di ogni altro elemento di spiritualità è necessario che essa parli alla nostra vita con segni veri ed eloquenti. Così si esprimeva alcuni anni fa la Congregazione per il culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: “Nella forma di celebrazione occorre stare attenti a non convertire teologia e topografia, soprattutto quando il sacerdote è all’altare. Solo nei dialoghi dall’altare il sacerdote parla al popolo. Tutto il resto è preghiera al Padre mediante Cristo, nello Spirito Santo. Questa teologia deve poter essere visibile” (Editoriale Notitiae, “Pregare «ad orientem versus»”, in Notitiae vol. 29 /1993/ n. 5)

Mi sia consentita, allora, una digressione molto concreta. E’ corretto che durante la liturgia della parola celebrante e fedeli si ritrovino in posizione frontale, l’uno davanti agli altri. Tutti si è in ascolto del Signore che viene a rivelarsi nella sua parola e nella forma del dialogo orante. Ma non si può dire del tutto corretto che celebrante e fedeli conservino la stessa posizione anche durante la liturgia eucaristica, quando invece, insieme, dovrebbero rivolgersi al Signore e a lui orientarsi con lo sguardo e con il cuore. Ascoltiamo in proposito quanto scriveva nel 2001, nel citato volume Introduzione allo spirito della Liturgia, J. Ratzinger: “Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece, essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma l’adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime l’essenza dell’evento, ma la partenza comune, che si esprime nell’orientamento comune” (p. 77).

Non ritenendo opportuno suggerire una nuova modifica per la disposizione degli altari nelle nostre chiese, il Cardinale auspicava che il Crocifisso venisse collocato sopra e al centro dell’altare, in modo tale da rendere visibile il comune orientamento al Signore. E aggiungeva: “Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile” (p. 80).

Ora ci è forse più facile capire il motivo per cui il Santo Padre a Roma, come anche in ogni parte del mondo, celebra con il grande crocifisso collocato al centro dell’altare, offrendo un esempio che siamo tutti chiamati a seguire. Ne va della verità del segno e della possibilità che la liturgia divenga davvero fonte di “spiritualità sacerdotale”.

*****
Mi avvio a concludere. Non senza un ultimo richiamo alla celebrazione liturgica. La liturgia conosce sempre un congedo che, in verità, assomiglia a uno spalancarsi delle porte della chiesa sul mondo. La liturgia, in altre parole, comporta sempre un mandato. E’ il mandato di testimoniare il dono ricevuto, la salvezza in Cristo Signore risorto da morte, la notizia lieta dell’amore del Padre che dona finalmente senso alla vita umana. Tale mandato è insieme una grazia e un impegno: è una grazia, perché solo la forza che viene da Dio ci mette in grado di pronunciare parole di testimonianza di fronte al mondo; è un impegno, perché il dono che abbiamo ricevuto deve trasformarsi nel coraggio gioioso della profezia quotidiana, ovvero nell’annuncio sempre e ovunque del senso del mondo e del valore della vita.

Diceva il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella sua Lettera Enciclica sull’Eucaristia: “Annunziare la morte del Signore «finché egli venga» (1 Cor 11, 26) comporta, per quanti partecipano all’Eucaristia l’impegno di trasformare la vita, perché essa diventi, in certo modo, tutta «eucaristica» (Ecclesia de Eucharistia, n. 20).

Anche questa è “spiritualità sacerdotale”. Anche questo è ciò che apprendiamo e di cui diventiamo capaci in virtù della partecipazione alla celebrazione liturgica.


Mons. Guido Marini

Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

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