La Pentecoste fa della Chiesa l’antitesi della torre di Babele. Ne fa la città dove, come recita l’orazione colletta della Messa in vigilia, «i popoli dispersi si raccolgono insieme, e le diverse lingue si uniscono a proclamare» con una sola fede la gloria del Signore. Questo è stato possibile dall’inizio, perché ciascuno ascoltava gli Apostoli predicare nella propria lingua. La predicazione del Vangelo precede e accompagna la sua stesura scritta: quindi, dall’inizio della Chiesa, è il Magistero apostolico a rendere comprensibile la Scrittura.
1. Alla luce di ciò, è necessario innanzitutto guardarsi da giudizi sommari sulla storia della Chiesa, quale quello che afferma che i cattolici dei secoli a noi più vicini ritenessero la lettura della Bibbia non necessaria alla salvezza, e dunque che fosse meglio trasmettere ai fedeli il messaggio biblico attraverso le «vie indirette» della predicazione e del catechismo. Dinanzi a giudizi simili, basta ricordare che il ministro della regina Candace, che pur leggeva Isaia in una lingua a lui familiare, non capiva il senso della Scrittura: «Come posso comprendere – osservò al diacono Filippo – se qualcuno non mi guida?» (At 8,31).
Gli Apostoli hanno esercitato la «mediazione» sacerdotale con la celebrazione del Sacrificio eucaristico e, prima ancora, «spezzando» la parola, cosa che avviene con la predicazione, la catechesi, l’omiletica. Solo un pregiudizio teologico può ritenere tali opere apostoliche delle «vie indirette» di accesso alla Scrittura. Così è Pietro che, ricevuto lo Spirito, prende la parola per spiegare quanto accaduto nel giorno di Pentecoste: questo fatto segna l’inizio del Magistero della Chiesa, senza il quale la Parola divina resta sigillata, quindi incomprensibile o soggetta all’interpretazione soggettiva.
Le «Profezie», ossia le letture della vigilia di Pentecoste nella forma straordinaria del Rito Romano, e nella Messa del sabato sera in quella ordinaria, illustrano l’«illuminazione» che compie lo Spirito nei cuori: certo, tale illuminazione può avvenire leggendo; ma, la Tradizione insegna che è da privilegiare l’ascolto. I liturgisti odierni sono tendenzialmente concordi nel confermare che l’atteggiamento più adeguato da parte dei fedeli durante la Liturgia della Parola è proprio quello dell’ascolto.
2. Altra tendenza diffusa ai nostri giorni consiste nel paragonare la vigilia di Pentecoste a quella pasquale. Vi sono, è chiaro, somiglianze, ma non vanno attutite le differenze. Le letture della Solennità ripropongono la doppia effusione dello Spirito: nel Vangelo di Giovanni, quella procedente dal Figlio Gesù, apparso nel cenacolo, per la remissione dei peccati; l’altra, degli Atti, per l’espansione missionaria e l’interiorizzazione del mistero pasquale. Tuttavia, la veglia della risurrezione del Signore è all’origine dell’effusione dello Spirito, che invece nella domenica di Pentecoste dà compimento alla Pasqua, a favore del corpo di Cristo che è la Chiesa. Infatti, il cero pasquale viene spento, a simboleggiare la conclusione della presenza visibile del Signore e l’inizio di quella invisibile per opera dello Spirito. Questo gesto indica la differenza tra Pasqua e Pentecoste. Anzi, dopo il congedo alleluiatico dei fedeli, il sacerdote celebrante potrebbe spegnere il cero – come previsto nella forma straordinaria già all’Ascensione – e togliere i grani d’incenso che egli stesso aveva infisso nel cero la notte di Pasqua.
3. Un altro gesto presente nella forma straordinaria è quello della genuflessione dei ministri alle Litanie che precedono l’inizio della Messa della vigilia e alla Sequenza nella Messa del giorno: un parallelo è nel rito della gonuklisía – la genuflessione – nella liturgia bizantina. Non si può ottenere la «discesa» dello Spirito Santo senza aver piegato le ginocchia in adorazione di Colui che, risorto e asceso al Cielo, invia dalla destra del Padre lo Spirito sulla Chiesa. L’iconografia latina rappresenta preferibilmente in tal modo la disposizione degli Apostoli con Maria nel cenacolo.
Solo la non conoscenza del background comune a Roma e Bisanzio – la cui evidenza rituale era maggiore prima della riforma liturgica postconciliare – può far ritenere la predicazione e la raffigurazione, come è stato scritto recentemente, «una pietà sentimentale dominata dalla contemplazione dei “misteri” della vita di Cristo».
Lo Spirito non vuole essere adorato, diceva per paradosso von Balthasar, ma vuole adorare in noi il Figlio Signore e, per Lui, il Padre: egli è «rivolto» verso il Signore, egli stesso è Signore. Tale adorazione appare come la conclusione logica del Mistero pasquale: Spiritus Domini replevit orbem terrarum, come canta l’antifona d’introito del giorno di Pentecoste.
4. Come si fa ad immaginare la discontinuità nella Tradizione della Chiesa, contrapponendo il nutrimento all’edificazione della fede, ritenendo che la predicazione di un tempo mirasse solo a quest’ultima? Gli amboni, i pergami e i pulpiti delle nostre cattedrali e chiese attestano che la parola di Dio è stata sempre al centro della vita ecclesiale, anche se noi chierici e laici non sempre abbiamo saputo trarne tutto il profitto possibile. Anzi, il fatto che tali strutture liturgiche fossero collocate in mezzo all’assemblea, ricorda la preoccupazione di istruire catecumeni e fedeli al fine di accedere ai sacramenti. Sebbene il Vaticano II abbia certamente promosso ulteriormente l’uso della Sacra Scrittura nella liturgia, constatiamo che finora il desiderio del concilio rimane come sospeso: basti prendere atto delle «lamentazioni» di catecheti e liturgisti sull’odierna realtà dell’omiletica e della catechesi, malgrado la riforma postconciliare. Dunque, bisogna piuttosto aver fede nello Spirito che in ogni tempo rinnova la faccia della terra! Nemmeno noi del terzo millennio siamo immuni da arretramenti spirituali.
5. Il sacerdote nella Pentecoste deve proclamare che «oggi» – come canta il Prefazio – si è compiuto il Mistero pasquale a Gerusalemme con la nascita della Chiesa universale, come ebbe a ricordare il Santo Padre nell’omelia di Pentecoste 2008, riprendendo l’insegnamento della Lettera Communionis notio inviata da lui – all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – ai vescovi della Chiesa Cattolica. La Chiesa è nata universale in un luogo, non particolare o locale, ma una e cattolica, santa e apostolica. È a tale appartenenza che i sacerdoti devono e si devono educare, prima che alla «diocesanità», la quale ha certamente valore, ma se innestata innanzitutto nella «cattolicità». Ne è sintomo l’istintivo immediato riferimento che i fedeli cattolici sentono verso il Papa, quale principio interiore di unità della Chiesa. L’autorità del Papa non è mediata da altra istanza, bensì è l’autorità dei vescovi che si esercita solo in comunione con quella del Vescovo di Roma.
6. Ne è segno, nella liturgia, l’uso della lingua latina, la quale, proprio perché superiore agli idiomi locali, ricorda visibilmente il mistero dell’unica lingua di Pentecoste, contrapposta alla confusione babelica. Dice il Prefazio: «Hai effuso lo Spirito Santo […] che ha riunito i linguaggi della famiglia umana nella professione dell’unica fede». Si rifletta sul fatto che il culto postula anche il linguaggio sacro, che col suo vocabolario costituisce una via specifica per organizzare l’esperienza religiosa. Mentre il razionalismo tende a rigettarlo, la fede nel soprannaturale porta necessariamente ad adottare un linguaggio sacro nel culto. Esso aiuta a preservare la Tradizione e l’ortodossia della fede – come attestano l’immutata presenza del Kyrie, degli Amen, degli Alleluia e dell’Osanna –; mentre volentieri vanno tradotte in lingua corrente le letture, ove è prevalente l’esigenza di comunicazione. Ritenere però che la lettura delle Scritture in latino ostacolerebbe l’efficacia della Parola di Dio nel cuore del credente, significa negare tutta la storia di fede e di santità di duemila anni.
La lingua latina serve ad esprimere meglio l’unità e l’universalità della Chiesa (cf. Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 62). Possiamo pensare che la cosiddetta «Messa internazionale», celebrata in più lingue, ove a turno solo una parte di fedeli comprende ciò che si dice (e gli altri, di conseguenza, non comprendono), esprima meglio l’universalità della Chiesa rispetto alla Messa in latino? D’altro canto, la lingua è parte di un ampio sforzo per evangelizzare la cultura, che proprio la Pentecoste ha inaugurato. La lingua latina è fattore di unità: essa ha posto le basi della civiltà cristiana, è giunta fino a noi e continuerà a svilupparsi.
7. Riteniamo che nella celebrazione di Pentecoste il sacerdote abbia la possibilità di istruire i fedeli su questi punti che abbiamo seppur sommariamente esposto: ne dipende la comprensione della cattolicità della Chiesa. Proprio a Gerusalemme il vescovo Cirillo puntualizzava: «Non domandare dove sia la Chiesa, ma specifica bene e chiedi dove sia la Chiesa Cattolica» (PG 33,1048).
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