lunedì 31 maggio 2010

ANCHE LA TV TRASH PREFERISCE LA TALARE

La talare, da sempre, rappresenta il distintivo per eccellenza del clero. La società dell'immagine, in cui viviamo, propone ad ogni classe il proprio abito, contrariamente a ciò all'interno della Chiesa Cattolica una gran parte di sacerdoti ha lasciato (o peggio non ha mai posseduto) la veste tipica del clero romano, ossia la talare.
Il cardinal Siri, una delle figure ecclesiastiche più importanti del '900, così scriveva ai preti della sua diocesi: “L'abito condiziona fortemente e talvolta forgia addirittura la psicologia di chi lo porta.L'abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. È la prima cosa che si vede, l'ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità!”

Navigando sul web, abbiamo trovato, un video che potremmo definire una confessione-musical in lingua napoletana (occhio ai sottotitoli). La cosa più interessante non sono certamente le qualità canone della cantate, bensì un forte richiamo alla tradizione Cattolica: il sacramento della Riconciliazione è amministrato in ginocchio, cioè secondo la prassi storicamente e teologicamente più adatta; le due suore indossano delle vesti monacali, oramai cadute in disuso, che si vedono soltanto nelle immaginette di qualche venerabile fondatrice; infine, come ciliegina sulla torta, il sacerdote indossa la talare (per l'acconciatura del Sacro Ministro è meglio sorvolare, ricordiamo che è soltanto un attore).
 
Da ciò, deduciamo, che i fedeli, in questi caso il regista, immaginano il prete come quell'uomo in talare che confessa interrottamente nel confessionile, per la santificazione dei suoi figlioli.
 


LA COMUNIONE RICEVUTA SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO

La più antica prassi di distribuzione della Comunione è stata, con tutta probabilità, quella di dare la Comunione ai fedeli sul palmo della mano. La storia della liturgia evidenzia, tuttavia, anche il processo, iniziato abbastanza presto, di trasformazione di tale prassi. Sin dall’epoca dei Padri, nasce e si consolida una tendenza a restringere sempre più la distribuzione della Comunione sulla mano e a favorire quella sulla lingua. Il motivo di questa preferenza è duplice: da una parte, evitare al massimo la dispersione dei frammenti eucaristici; dall’altra, favorire la crescita della devozione dei fedeli verso la presenza reale di Cristo nel sacramento.
All’uso di ricevere la Comunione solo sulla lingua fa riferimento anche san Tommaso d’Aquino, il quale afferma che la distribuzione del Corpo del Signore appartiene al solo sacerdote ordinato. Ciò per diversi motivi, tra i quali l’Angelico cita anche il rispetto verso il sacramento, che «non viene toccato da nessuna cosa che non sia consacrata: e quindi sono consacrati il corporale, il calice e così pure le mani del sacerdote, per poter toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è permesso toccarlo fuori di caso di necessità: se per esempio stesse per cadere per terra, o in altre contingenze simili» (Summa Theologiae, III, 82, 3).
Lungo i secoli, la Chiesa ha sempre cercato di caratterizzare il momento della Comunione con sacralità e somma dignità, sforzandosi costantemente di sviluppare nel modo migliore gesti esterni che favorissero la comprensione del grande mistero sacramentale. Nel suo premuroso amore pastorale, la Chiesa contribuisce a che i fedeli possano ricevere l’Eucaristia con le dovute disposizioni, tra le quali figura il comprendere e considerare interiormente la presenza reale di Colui che si va a ricevere (cf. Catechismo di san Pio X, nn. 628 e 636). Tra i segni di devozione propri ai comunicandi, la Chiesa d’Occidente ha stabilito anche lo stare in ginocchio. Una celebre espressione di sant’Agostino, ripresa al n. 66 della Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, insegna: «Nessuno mangi quella carne [il Corpo eucaristico], se prima non l’ha adorata. Peccheremmo se non l’adorassimo» (Enarrationes in Psalmos, 98,9). Stare in ginocchio indica e favorisce questa necessaria adorazione previa alla ricezione di Cristo eucaristico.
In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione» (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, p. 86). Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666).

Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61:
«Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. [...] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”».
In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati.

mercoledì 26 maggio 2010

IL SACERDOTE NELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA DI PENTECOSTE


La Pentecoste fa della Chiesa l’antitesi della torre di Babele. Ne fa la città dove, come recita l’orazione colletta della Messa in vigilia, «i popoli dispersi si raccolgono insieme, e le diverse lingue si uniscono a proclamare» con una sola fede la gloria del Signore. Questo è stato possibile dall’inizio, perché ciascuno ascoltava gli Apostoli predicare nella propria lingua. La predicazione del Vangelo precede e accompagna la sua stesura scritta: quindi, dall’inizio della Chiesa, è il Magistero apostolico a rendere comprensibile la Scrittura.
1. Alla luce di ciò, è necessario innanzitutto guardarsi da giudizi sommari sulla storia della Chiesa, quale quello che afferma che i cattolici dei secoli a noi più vicini ritenessero la lettura della Bibbia non necessaria alla salvezza, e dunque che fosse meglio trasmettere ai fedeli il messaggio biblico attraverso le «vie indirette» della predicazione e del catechismo. Dinanzi a giudizi simili, basta ricordare che il ministro della regina Candace, che pur leggeva Isaia in una lingua a lui familiare, non capiva il senso della Scrittura: «Come posso comprendere – osservò al diacono Filippo – se qualcuno non mi guida?» (At 8,31).
Gli Apostoli hanno esercitato la «mediazione» sacerdotale con la celebrazione del Sacrificio eucaristico e, prima ancora, «spezzando» la parola, cosa che avviene con la predicazione, la catechesi, l’omiletica. Solo un pregiudizio teologico può ritenere tali opere apostoliche delle «vie indirette» di accesso alla Scrittura. Così è Pietro che, ricevuto lo Spirito, prende la parola per spiegare quanto accaduto nel giorno di Pentecoste: questo fatto segna l’inizio del Magistero della Chiesa, senza il quale la Parola divina resta sigillata, quindi incomprensibile o soggetta all’interpretazione soggettiva.

Le «Profezie», ossia le letture della vigilia di Pentecoste nella forma straordinaria del Rito Romano, e nella Messa del sabato sera in quella ordinaria, illustrano l’«illuminazione» che compie lo Spirito nei cuori: certo, tale illuminazione può avvenire leggendo; ma, la Tradizione insegna che è da privilegiare l’ascolto. I liturgisti odierni sono tendenzialmente concordi nel confermare che l’atteggiamento più adeguato da parte dei fedeli durante la Liturgia della Parola è proprio quello dell’ascolto.

2. Altra tendenza diffusa ai nostri giorni consiste nel paragonare la vigilia di Pentecoste a quella pasquale. Vi sono, è chiaro, somiglianze, ma non vanno attutite le differenze. Le letture della Solennità ripropongono la doppia effusione dello Spirito: nel Vangelo di Giovanni, quella procedente dal Figlio Gesù, apparso nel cenacolo, per la remissione dei peccati; l’altra, degli Atti, per l’espansione missionaria e l’interiorizzazione del mistero pasquale. Tuttavia, la veglia della risurrezione del Signore è all’origine dell’effusione dello Spirito, che invece nella domenica di Pentecoste dà compimento alla Pasqua, a favore del corpo di Cristo che è la Chiesa. Infatti, il cero pasquale viene spento, a simboleggiare la conclusione della presenza visibile del Signore e l’inizio di quella invisibile per opera dello Spirito. Questo gesto indica la differenza tra Pasqua e Pentecoste. Anzi, dopo il congedo alleluiatico dei fedeli, il sacerdote celebrante potrebbe spegnere il cero – come previsto nella forma straordinaria già all’Ascensione – e togliere i grani d’incenso che egli stesso aveva infisso nel cero la notte di Pasqua.

3. Un altro gesto presente nella forma straordinaria è quello della genuflessione dei ministri alle Litanie che precedono l’inizio della Messa della vigilia e alla Sequenza nella Messa del giorno: un parallelo è nel rito della gonuklisía – la genuflessione – nella liturgia bizantina. Non si può ottenere la «discesa» dello Spirito Santo senza aver piegato le ginocchia in adorazione di Colui che, risorto e asceso al Cielo, invia dalla destra del Padre lo Spirito sulla Chiesa. L’iconografia latina rappresenta preferibilmente in tal modo la disposizione degli Apostoli con Maria nel cenacolo.

Solo la non conoscenza del background comune a Roma e Bisanzio – la cui evidenza rituale era maggiore prima della riforma liturgica postconciliare – può far ritenere la predicazione e la raffigurazione, come è stato scritto recentemente, «una pietà sentimentale dominata dalla contemplazione dei “misteri” della vita di Cristo».

Lo Spirito non vuole essere adorato, diceva per paradosso von Balthasar, ma vuole adorare in noi il Figlio Signore e, per Lui, il Padre: egli è «rivolto» verso il Signore, egli stesso è Signore. Tale adorazione appare come la conclusione logica del Mistero pasquale: Spiritus Domini replevit orbem terrarum, come canta l’antifona d’introito del giorno di Pentecoste.

4. Come si fa ad immaginare la discontinuità nella Tradizione della Chiesa, contrapponendo il nutrimento all’edificazione della fede, ritenendo che la predicazione di un tempo mirasse solo a quest’ultima? Gli amboni, i pergami e i pulpiti delle nostre cattedrali e chiese attestano che la parola di Dio è stata sempre al centro della vita ecclesiale, anche se noi chierici e laici non sempre abbiamo saputo trarne tutto il profitto possibile. Anzi, il fatto che tali strutture liturgiche fossero collocate in mezzo all’assemblea, ricorda la preoccupazione di istruire catecumeni e fedeli al fine di accedere ai sacramenti. Sebbene il Vaticano II abbia certamente promosso ulteriormente l’uso della Sacra Scrittura nella liturgia, constatiamo che finora il desiderio del concilio rimane come sospeso: basti prendere atto delle «lamentazioni» di catecheti e liturgisti sull’odierna realtà dell’omiletica e della catechesi, malgrado la riforma postconciliare. Dunque, bisogna piuttosto aver fede nello Spirito che in ogni tempo rinnova la faccia della terra! Nemmeno noi del terzo millennio siamo immuni da arretramenti spirituali.

5. Il sacerdote nella Pentecoste deve proclamare che «oggi» – come canta il Prefazio – si è compiuto il Mistero pasquale a Gerusalemme con la nascita della Chiesa universale, come ebbe a ricordare il Santo Padre nell’omelia di Pentecoste 2008, riprendendo l’insegnamento della Lettera Communionis notio inviata da lui – all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – ai vescovi della Chiesa Cattolica. La Chiesa è nata universale in un luogo, non particolare o locale, ma una e cattolica, santa e apostolica. È a tale appartenenza che i sacerdoti devono e si devono educare, prima che alla «diocesanità», la quale ha certamente valore, ma se innestata innanzitutto nella «cattolicità». Ne è sintomo l’istintivo immediato riferimento che i fedeli cattolici sentono verso il Papa, quale principio interiore di unità della Chiesa. L’autorità del Papa non è mediata da altra istanza, bensì è l’autorità dei vescovi che si esercita solo in comunione con quella del Vescovo di Roma.

6. Ne è segno, nella liturgia, l’uso della lingua latina, la quale, proprio perché superiore agli idiomi locali, ricorda visibilmente il mistero dell’unica lingua di Pentecoste, contrapposta alla confusione babelica. Dice il Prefazio: «Hai effuso lo Spirito Santo […] che ha riunito i linguaggi della famiglia umana nella professione dell’unica fede». Si rifletta sul fatto che il culto postula anche il linguaggio sacro, che col suo vocabolario costituisce una via specifica per organizzare l’esperienza religiosa. Mentre il razionalismo tende a rigettarlo, la fede nel soprannaturale porta necessariamente ad adottare un linguaggio sacro nel culto. Esso aiuta a preservare la Tradizione e l’ortodossia della fede – come attestano l’immutata presenza del Kyrie, degli Amen, degli Alleluia e dell’Osanna –; mentre volentieri vanno tradotte in lingua corrente le letture, ove è prevalente l’esigenza di comunicazione. Ritenere però che la lettura delle Scritture in latino ostacolerebbe l’efficacia della Parola di Dio nel cuore del credente, significa negare tutta la storia di fede e di santità di duemila anni.

La lingua latina serve ad esprimere meglio l’unità e l’universalità della Chiesa (cf. Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 62). Possiamo pensare che la cosiddetta «Messa internazionale», celebrata in più lingue, ove a turno solo una parte di fedeli comprende ciò che si dice (e gli altri, di conseguenza, non comprendono), esprima meglio l’universalità della Chiesa rispetto alla Messa in latino? D’altro canto, la lingua è parte di un ampio sforzo per evangelizzare la cultura, che proprio la Pentecoste ha inaugurato. La lingua latina è fattore di unità: essa ha posto le basi della civiltà cristiana, è giunta fino a noi e continuerà a svilupparsi.

7. Riteniamo che nella celebrazione di Pentecoste il sacerdote abbia la possibilità di istruire i fedeli su questi punti che abbiamo seppur sommariamente esposto: ne dipende la comprensione della cattolicità della Chiesa. Proprio a Gerusalemme il vescovo Cirillo puntualizzava: «Non domandare dove sia la Chiesa, ma specifica bene e chiedi dove sia la Chiesa Cattolica» (PG 33,1048).

giovedì 20 maggio 2010

IL NOSTRO FANS' CLUB GIRA IL MONDO


In seguito alla pubblicazione delle foto della messa solenne celebrata da mons. Guido Marini, nella basilica di santa Maria Maggiore a Roma, con grande godimento notiamo che blog famosissimi come Messainlatino.it e newliturgicalmovement oppure il magazine tedesco katholisches, hanno tratto dal nostro giovane blog le splendide immagini scattate durante il Santo Sacrificio della Croce nella solennità dell'Ascensione.

Ringraziamo tutti coloro che diffondono le nostre foto, in questo modo "pubbliciziamo" la vera osservanza alla Sacrosantum Concilium e all'ermeneutica della continuità liturgica.

Raccomandiamo di citare sempre la fonte delle immagini!


La parola al maestro:
L’abito proprio della liturgia è un abito di santità: vi trova espressione, infatti, la santità di Dio. A quella santità siamo chiamati a rivolgerci, di quella santità siamo chiamati a rivestirci, realizzando così la pienezza della partecipazione.
(RADICI CRISTIANE)

martedì 18 maggio 2010

Solennità dell'ascenzione "coram Deo" con don Guido


Pubblichiamo, con grande goia, le foto della messa celebrata da mons. Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche del Santo Padre, nella basilica di santa Maria Maggiore il 16 maggio, solennità dell'Ascensione di N.S. Gesu' Cristo.
Al Santo Sacrificio, celebrato secondo il messale di Paolo VI, hanno partecipato alcuni fedeli della diocesi di Genova e dell'America Latina.

Buona visione!







La parola al maestro:
L'ermeneutica della continuità è sempre il criterio esatto per leggere il cammino della Chiesa nel tempo. Ciò vale anche per la liturgia. Come un Papa cita nei suoi documenti i Pontefici che lo hanno preceduto, in modo da indicare la continuità del magistero della Chiesa, così nell'ambito liturgico un Papa usa anche vesti liturgiche e suppellettili sacre dei Pontefici che lo hanno preceduto per indicare la stessa continuità anche nella lex orandi. Vorrei però far notare che il Papa non usa sempre abiti liturgici antichi. Ne indossa spesso di moderni. L'importante non è tanto l'antichità o la modernità, quanto la bellezza e la dignità, componenti importanti di ogni celebrazione liturgica.
 L'Osservatore Romano - 26 giugno 2008


Maria Salus Populi Romani: ora pro nobis!

domenica 9 maggio 2010

L'INCONTRO DEL SACERDOTE CON MARIA


1. Eucaristia, Chiesa e Maria: in relazione al sacerdote

«Se vogliamo riscoprire in tutta la sua ricchezza il rapporto intimo che lega Chiesa ed Eucaristia, non possiamo dimenticare Maria, Madre e modello della Chiesa»[1]. Queste parole del venerabile Giovanni Paolo II costituiscono una traccia adeguata per introdurci nel tema che cerchiamo di sviluppare brevemente con questo articolo: L'incontro del sacerdote con Maria nella Celebrazione eucaristica.

Quando la Chiesa celebra l'Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del Signore, «si realizza l'opera della nostra redenzione»[2] e per questo si può affermare che «c'è un influsso causale dell'Eucaristia alle origini stesse della Chiesa»[3]. Nell'Eucaristia, Cristo si consegna a noi, edificandoci continuamente come suo Corpo. «Pertanto, nella suggestiva circolarità tra Eucaristia che edifica la Chiesa e Chiesa stessa che fa l'Eucaristia, la causalità primaria è quella espressa nella prima formula: la Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell'Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della croce»[4]. L'Eucaristia precede cronologicamente ed ontologicamente la Chiesa e in questo modo si comprova di nuovo che il Signore ci ha «amato per primo».

Allo stesso tempo, Gesù ha reso perpetua la sua donazione personale mediante l'istituzione dell'Eucaristia durante l'Ultima Cena. In quell'«ora», Gesù anticipa la sua morte e la sua risurrezione. Di qui che possiamo affermare che «in questo dono Gesù Cristo consegnava alla Chiesa l'attualizzazione perenne del mistero pasquale»[5]. Tutto il Triduum paschale è come incluso, anticipato e «concentrato» per sempre nel Dono eucaristico. Per questo, ogni sacerdote che celebra la Santa Messa, assieme alla comunità che ad essa partecipa, ritorna all'«ora» della croce e della glorificazione, torna spiritualmente al luogo e alla hora sancta della redenzione[6]. Nell'Eucaristia, ci addentriamo nell'atto oblativo di Gesù e così, partecipando alla sua offerta, al suo Corpo e al suo Sangue, ci uniamo a Dio[7].

In questo «memoriale» del Calvario è presente tutto ciò che Cristo ha compiuto nella sua Passione e morte. «Pertanto non manca ciò che Cristo ha compiuto anche verso la Madre a nostro favore»[8]. In ogni celebrazione della Santa Messa, noi riascoltiamo quell'«Ecco tuo figlio!» detto dal Figlio a sua Madre, mentre Egli stesso ripete a noi: «Ecco tua Madre!» (Gv 19,26-27).

«Prendere con sé Maria, significa introdurla nel dinamismo dell'intera propria esistenza - non è una cosa esteriore - e in tutto ciò che costituisce l'orizzonte del proprio apostolato»[9]. Per questo «Vivere nell'Eucaristia il memoriale della morte di Cristo implica anche ricevere continuamente questo dono. [...] Maria è presente, con la Chiesa e come Madre della Chiesa, in ciascuna delle nostre Celebrazioni eucaristiche. Se Chiesa ed Eucaristia sono un binomio inscindibile, altrettanto occorre dire del binomio Maria ed Eucaristia»[10].

La raccomandazione della celebrazione quotidiana della Santa Messa, anche quando non vi fosse partecipazione di fedeli, deriva da una parte dal valore obiettivamente infinito di ogni Celebrazione eucaristica; «e trae poi motivo dalla sua singolare efficacia spirituale, perché, se vissuta con attenzione e fede, la Santa Messa è formativa nel senso più profondo del termine, in quanto promuove la conformazione a Cristo e rinsalda il sacerdote nella sua vocazione»[11]. In questo percorso di conformazione e di trasformazione, l'incontro del sacerdote con Maria nella Santa Messa riveste un'importanza particolare. In realtà, «per la propria identificazione e conformazione sacramentale a Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, ogni sacerdote può e deve sentirsi veramente figlio prediletto di questa altissima ed umilissima Madre»[12].

2. Nella Messa di Paolo VI

Nel Messale Romano nella sua editio typica tertia, espressione ordinaria della Lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino, la presenza materna di Maria si sperimenta in due momenti significativi della Celebrazione eucaristica: il Confiteor dell'atto penitenziale e la Preghiera eucaristica.

2.1. Il Confiteor. Nel cammino verso il Signore, ci rendiamo conto della nostra indegnità. L'uomo dinanzi a Dio si avverte peccatore e dalle sue labbra sorge spontanea la confessione della propria miseria. Si rende necessario chiedere all'interno della celebrazione che Dio stesso ci trasformi e che accetti di farci partecipare a quella actio Dei che costituisce la liturgia. Di fatto, lo spirito di continua conversione è una di quelle condizioni personali che rendono possibile la actuosa participatio dei fedeli e dello stesso sacerdote celebrante. «Non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla Liturgia eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita [...]. Un cuore riconciliato con Dio abilita alla vera partecipazione»[13].

L'atto penitenziale, che «si compie attraverso la formula di confessione generale di tutta la comunità»[14], ci aiuta a conformarci ai sentimenti di Cristo e a porre i mezzi perché si realizzi lo «stare con Dio»; mentre ci «forza» ad uscire da noi stessi, ci spinge a pregare con e per gli altri: non siamo soli. Grazie alla comunione dei santi, aiutiamo e ci sentiamo aiutati e sostenuti gli uni dagli altri. È in questo contesto che incontriamo una delle modalità dell'orazione liturgica mariana, la quale si presenta come ricordo dell'intercessione di Maria nel Confiteor. Come ricordava Paolo VI, «il popolo di Dio la invoca come Consolatrice degli afflitti, Salute degli infermi, Rifugio dei peccatori, per ottenere consolazione nella tribolazione, sollievo nella malattia, forza liberatrice dal peccato; perché Lei, libera da ogni peccato, conduce i suoi figli a questo: a vincere con energica determinazione il peccato»[15].

Il Confiteor, genuina formula di confessione, si incontra in diverse redazioni, a partire dal sec. IX, in ambito monastico. Di lì passerà alle chiese del clero secolare e lo troviamo come elemento fisso nell'Ordo della Curia papale anteriore al 1227[16]:

«Ideo precor beatam Mariam semper Virginem...».

«Per questo prego la Beata Maria, sempre Vergine...».

Maria, in comunione con Cristo unico Mediatore, prega il Padre per tutti i fedeli, suoi figli. Come ricorda il concilio Vaticano II: «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia. Ogni salutare influsso della Beata Vergine verso gli uomini non nasce da una necessità oggettiva, ma da una disposizione puramente gratuita di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo; pertanto si fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia, e non impedisce minimamente l'unione immediata dei credenti con Cristo, anzi la facilita»[17].

Maria «si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata»[18]. Simile cura Ella la dimostra particolarmente per i sacerdoti. «Maria li predilige infatti per due ragioni: perché sono più simili a Gesù, amore supremo del suo cuore, e perché anch'essi, come Lei, sono impegnati nella missione di proclamare, testimoniare e dare Cristo al mondo»[19]. Così si spiega che il concilio Vaticano II affermi: «Essa è la Madre del Sommo ed Eterno Sacerdote, la Regina degli Apostoli, il sostegno del loro ministero: essi [i presbiteri] devono quindi venerarla e amarla con devozione e culto filiale»[20].

2.2. La Preghiera eucaristica. Per quanto riguarda la memoria di Maria nelle preghiere eucaristiche del Messale Romano, «questa memoria quotidiana, per la sua collocazione al centro del santo Sacrificio, deve essere ritenuta come una forma particolarmente espressiva del culto che la Chiesa rende alla Benedetta dall'Altissimo (cf. Lc 1,28)»[21].

Questo ricordo di Maria Santissima si manifesta in due modi: la sua presenza nell'incarnazione e la sua intercessione gloriosa. Circa il primo modo, possiamo ricordare che il «sì» di Maria è la porta per la quale Dio si incarna, entra nel mondo. In questo modo, Maria è realmente e profondamente coinvolta nel mistero dell'incarnazione e pertanto della nostra salvezza. «L'incarnazione, il farsi uomo del Figlio, era dall'inizio finalizzata al dono di sé; al donarsi con molto amore nella croce, per farsi pane per la vita del mondo. Così sacrificio, sacerdozio e incarnazione vanno insieme e Maria sta nel centro di questo mistero»[22].

Così si trova espresso, ad esempio, nel prefazio della Preghiera eucaristica II, che si rifà alla Traditio apostolica, nonché nel Post-sanctus della IV. Le due espressioni sono molto simili:

«...e lo hai mandato a noi Salvatore e Redentore, fatto uomo per opera dello Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria»(PE II).

«Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo ed è nato dalla Vergine Maria» (PE IV).

Nel contesto della Preghiera eucaristica, questa confessione di fede sottolinea la cooperazione di Maria Santissima al mistero dell'incarnazione e il suo legame con Cristo, come pure l'azione dello Spirito Santo. Con essa si intende presentare l'Eucaristia come presenza vera ed autentica del Verbo incarnato che ha sofferto ed è stato glorificato. L'Eucaristia, mentre rimanda alla Passione e risurrezione, sta allo stesso tempo in continuità con l'incarnazione.

Giovanni Paolo II segnala che «Maria concepì nell'annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del Corpo e del Sangue, anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il Corpo e il Sangue del Signore»[23]. Maria appare così legata alla relazione «Incarnazione-Eucaristia».

D'altro canto, la presenza di Maria Santissima nella preghiera eucaristica ci presenta anche la sua intercessione gloriosa. Il ricordo di Lei nella comunione dei santi è elemento tipico del Canone Romano e si ritrova nelle altre preghiere eucaristiche del Messale Romano, in sintonia con le anafore orientali. «La tensione escatologica suscitata dall'Eucaristia esprime e rinsalda la comunione con la Chiesa celeste. Non è un caso che nelle anafore orientali e nelle preghiere eucaristiche latine si ricordi[...] con venerazione la sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo»[24].

La memoria di Maria nel Canone Romano si arricchì con titoli solenni che ricordano la proclamazione del dogma della maternità divina del concilio di Efeso (431) e con espressioni che probabilmente derivano della omelie dei sommi pontefici[25]. La menzione solenne del Canone Romano recita:

«... in primis gloriosae semper virginis Mariae Genetricis Dei, et Domini nostri Iesu Christi».
«Veneriamo la memoria, anzitutto, della gloriosa e sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo» (Canone Romano).
Maria Santissima è esaltata con i titoli di gloriosa e semper Virgo, come la chiama sant'Epifanio[26]. D'altra parte, l'espressione Genetrix Dei è utilizzata con frequenza dai Padri latini, specialmente da sant'Ambrogio. Il suo inserimento nel Canone Romano è anteriore all'epoca del papa Leone Magno e molto probabilmente fu introdotta prima del concilio di Efeso[27]. Va inoltre evidenziato che Maria è ricordata prima di tutti i santi.

Il significato di questa menzione e di questo ricordo può essere triplice[28]: primo, la Chiesa facendo memoria di Maria entra in comunione con Lei; secondo, tale ricordo è logico, perché deriva dalla condizione di santità e gloria propria della Madre di Dio[29]; ultimo, a causa dell'intercessione che Ella esercita presso Dio[30]: «Per i loro meriti e le loro preghiere [di Maria e dei santi] donaci sempre [Signore] aiuto e protezione» (Canone Romano).

In un contesto simile a quello del Canone Romano, sebbene con piccole variazioni, si incontra la nostra richiesta a Maria e ai santi perché raggiungiamo la vita eterna:

«... donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la Beata Maria, Vergine e Madre di Dio...» (PE II).

«... perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la Beata Maria, Vergine e Madre di Dio...» (PE III)[31].

«... concedi a noi, tuoi figli, di ottenere con la Beata Maria Vergine e Madre di Dio [...] l'eredità eterna del tuo regno...»(PE IV).

3. Nella Messa di san Pio V

Da ultimo, ricordiamo che nel Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, espressione straordinaria della Lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino, incontriamo menzionata Maria Santissima in altri due momenti della Celebrazione eucaristica, oltre a quelli rimasti anche nella forma ordinaria. Innanzitutto, nella supplica alla Santissima Trinità che il sacerdote prega dopo il Lavabo e che pone fine ai riti offertoriali. Vi si legge:

«Suscipe sancta Trinitas, hanc oblationem quam tibi offerimus ob memoriam passionis [...]; et in honorem beatae Mariae semper Virginis...»

Questa preghiera riassume le intenzioni e i frutti del sacrificio come epilogo dell'Offertorio. In effetti, dopo aver ricordato che l'offerta si compie in memoria della Passione, risurrezione e ascensione del Signore, si menzionano la Santissima Vergine e i santi Giovanni Battista, Pietro e Paolo. La menzione di Maria si colloca nel contesto di quella venerazione che la santa Chiesa con amore speciale le tributa a motivo del legame indissolubile che esiste tra Lei e l'opera salvifica del suo Figlio. Allo stesso tempo, in Lei ammira ed esalta il frutto più splendente della redenzione[32]. In questa preghiera si ricorda che «nell'Eucaristia la Chiesa si unisce pienamente a Cristo e al suo sacrificio, facendo proprio lo spirito di Maria»[33].

La menzione di Maria si incontra poi nell'embolismo Líbera nos che segue il Pater noster, in cui ci si esprime in questi termini:

«Libera nos, quaesumus Domine, ab omnibus malis, praeteritis, praesentibus et futuris: et intercedente beata et gloriosa semper Virgine Dei Genitrice Maria [...] da propitius pacem in diebus nostris...».

Anche questa orazione manifesta la perfetta unità esistente tra Lex orandi e Lex credendi, poiché «la sorgente della nostra fede e della liturgia eucaristica, infatti, è il medesimo evento: il dono che Cristo ha fatto di se stesso nel Mistero pasquale»[34]. Di fatto, questa orazione mostra che «a causa del suo carattere di intercessione, che si manifestò per la prima volta a Cana di Galilea, la mediazione di Maria continua nella storia della Chiesa e del mondo»[35].

4. Conclusione
Terminando questa breve panoramica sull'Ordo Missae, fatta di significativi incontri con Maria Santissima, possiamo affermare con uno dei grandi santi del nostro tempo: «Per me la prima devozione mariana - mi piace pensare così - è la Santa Messa [...]. Questa è infatti un'azione della Trinità: per volontà del Padre, cooperando con lo Spirito Santo, il Figlio si offre in oblazione redentrice. In questo insondabile mistero, si avverte, come attraverso il velo, il volto purissimo di Maria: Figlia di Dio Padre, Madre di Dio Figlio, Sposa di Dio Spirito Santo. L'incontro con Gesù nel Sacrificio dell'altare comporta necessariamente l'incontro con Maria, sua Madre»[36].


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[1] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 53.
[2] Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 3.
[3] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 21.
[4] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 14.
[5] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 5.
[6] Cf. ibid., n. 4.
[7] Cf. Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 13.
[8] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 57.
[9] Benedetto XVI, Udienza generale, 12.08.2009.
[10] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 57.
[11] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 80.
[12] Benedetto XVI, Udienza generale, 12.08.2009.
[13] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 55.
[14] Institutio Generalis Missalis Romani, n. 55.
[15] Paolo VI, Marialis cultus, n. 57.
[16] V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, Roma 2003, pp. 272-274.
[17] Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 60.
[18] Ibid., n. 62.
[19] Benedetto XVI, Udienza generale, 12.08.2009.
[20] Concilio Vaticano II, Presbyterorum ordinis, n. 18.
[21] Paolo VI, Marialis cultus, n. 10.
[22] Benedetto XVI, Udienza generale, 12.08.2009.
[23] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 55.
[24] Ibid., n. 19.
[25] Cf. S. Meo, «La formula mariana Gloriosa semper Virgo Maria Genitrix Dei et Domini nostri Iesu Christi nel Canone romano e presso due Pontefici del V secolo», in Pontificia Academia Mariana Internationalis, De primordiis cultus mariani. Acta Congressus Mariologici-mariani in Lusitania anno 1967 celebrati, Romae 1970, II, pp. 439-458.
[26] Cf. M. Righetti, Historia de la liturgia, Madrid 1956, I, p. 334.
[27] M. Augé, L'anno liturgico: è Cristo stesso presente nella sua Chiesa, Città del Vaticano 2009, p. 247.
[28] Cf. J. Castellano, «In comunione con la Beata Vergine Maria. Varietà di espressioni della preghiera liturgica mariana», Rivista liturgica 75 (1988), p. 59.
[29] «La santità esemplare della Vergine muove i fedeli ad elevare gli occhi a Maria, che brilla come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti» (Paolo VI, Marialis cultus, n. 57).
[30] «La pietà verso la Madre del Signore si converte per il fedele in occasione di crescita nella grazia divina, finalità utlima di ogni azione pastorale. Perché è impossibile onorare la Piena di grazia (Lc 1,28) senza onorare in se stessi lo stato ri grazia, vale a dire, l'amicizia con Dio, la comunione con Lui, l'inabitazione dello Spirito» (Paolo VI, Marialis cultus, n. 57).
[31] «La recente Preghiera eucaristica III esprime con intenso anelito il desiderio degli oranti di condividere con la Madre l'eredità dei figli» (Ibid., n. 10).
[32] Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum concilium, n. 102.
[33] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 58.
[34] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 34.
[35] Giovanni Paolo II, Redemptoris mater, n. 40.
[36] J. Escrivá, La Virgen del Pilar. Libro de Aragón, Madrid 1976, p. 99.

martedì 4 maggio 2010

Le Costituzioni Quo Primum di san Pio V e il Missale Romanum di Paolo VI

La rubrica «Spirito della Liturgia» si sta soffermando diffusamente lungo quest'anno sulla peculiare indole eucaristica del sacerdozio ministeriale. In questo contributo, desideriamo focalizzare l'attenzione su un elemento importante che permette al presbitero di celebrare debitamente il memoriale del Sacrificio di Cristo: il Messale Romano, il libro liturgico che contiene i testi eucologici del rito della Santa Messa secondo la tradizione liturgica latino-romana.

L'Ordinamento Generale del Messale Romano al n. 399 afferma: «... il Messale Romano, anche nella diversità delle lingue e in una certa varietà di consuetudini, si deve conservare per il futuro come strumento e segno eccellente di integrità e di unità del Rito Romano». Tale auspicio contiene in sé una consapevolezza maturata nella tradizione liturgica della Chiesa già nei secoli precedenti. Fu, infatti, san Pio V (1566-1572) che, con la Costituzione Apostolica Quo Primum (14 luglio 1570), promulgò il Messale Romano offrendolo a tutti i cristiani «come strumento di unità liturgica e insigne monumento del culto genuino e religioso nella Chiesa».

Al fine di comprendere meno superficialmente la rilevanza di tale avvenimento, può risultare opportuno un breve riferimento che inquadri storicamente la Bolla di san Pio V. Prima del Concilio di Trento, esistevano nella Chiesa latina innumerevoli libri liturgici che, osservando consuetudini liturgiche locali (territoriali) e particolari (ordini religiosi, confraternite, ecc.), presentavano un'ampia molteplicità di forme rituali della Celebrazione eucaristica. Essi, pur conservando la medesima struttura celebrativa, differivano per una non identica disposizione consequenziale delle parti della Messa, per l'uso di formulari e preghiere tipiche, per invocazioni a santi specifici, per l'aggiunta inopportuna di elementi aventi non raramente un carattere superstizioso o addirittura eterodosso.

Alla già non perfetta uniformità rituale del culto liturgico nella Chiesa latina e alla precarietà di uno stile celebrativo non ancora ben definito, si aggiungevano pure le sempre più diffuse contaminazioni liturgiche provenienti dalla teologia protestante.

In un contesto storico simile, per purificare il rito della Celebrazione eucaristica da elementi impropri, e nel tentativo di promuovere una maggiore unità tra i fedeli mediante l'unificazione rituale, i padri del Concilio di Trento, nella XXV sessione, stabilirono che fosse redatto un nuovo messale. A tal fine fu costituita una commissione di esperti i quali consultarono diligentemente i codici presenti nella Biblioteca Vaticana e le edizioni correnti del messale, raccolsero e studiarono antichi libri provenienti da varie chiese locali e considerarono gli scritti dei Padri della Chiesa.

Una volta completato il lavoro, l'opera fu sottoposta a san Pio V, il quale stabilì immediatamente che il nuovo Messale entrasse in vigore e sostituisse obbligatoriamente tutti quei libri liturgici che erano stati precedentemente utilizzati nelle comunità di rito latino. La netta determinazione con la quale il Pontefice espresse la sua volontà possiamo facilmente dedurla dalle solenni espressioni che Egli stesso utilizzò nella Quo Primum:

«[...] I sacerdoti comprendano di quali preghiere, di qui innanzi, dovranno servirsi nella celebrazione della Messa, quali riti e cerimonie osservare. [...] Ordiniamo che nelle chiese di tutte le Provincie dell'orbe cristiano [...] dove a norma di diritto o per consuetudine si celebra secondo il rito della Chiesa Romana, in avvenire e senza limiti di tempo, la Messa [...] non potrà essere cantata o recitata in altro modo da quello prescritto dall'ordinamento del Messale da Noi pubblicato».

Nella stessa Costituzione Pio V ordinò anche che gli ecclesiastici «in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l'audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo Messale».

Va tuttavia notato che il Missale Romanum fu introdotto obbligatoriamente dovunque ad eccezione delle diocesi e degli ordini religiosi che avevano un rito proprio da almeno duecento anni. Era questo il caso del rito mozarabico di Toledo, del rito di Braga, di quello di Lione e del rito ambrosiano di Milano; ma anche delle tradizioni liturgiche di ordini religiosi quali i certosini, i cistercensi, i domenicani e i carmelitani.
Se la prima editio typica del Messale Romano post-tridentino nacque per attuare i decreti di quel concilio ecumenico, quattro secoli più tardi, in ossequio alla richiesta di riforma liturgica fatta dal concilio Vaticano II, venne alla luce il Novus Ordo Missae.

I padri conciliari, nel solco del movimento liturgico, fissarono, infatti, alcuni principi generali che avrebbero dovuto portare ad una revisione dei libri liturgici. L'obiettivo primario che si prefissero era quello di una liturgia che fosse maggiormente comprensibile, mediante l'uso di un linguaggio rituale (simboli, gesti, parole) che potesse favorire l'actuosa participatio dei fedeli. Una prima riforma del Messale Romano vide la luce nel 1964-1965, quando fu pubblicata una versione bilingue del rito riformato della Messa. Non ci soffermiamo ora ad analizzare le possibili ragioni per cui tale Messale sia stato ritenuto non pienamente attuativo della volontà espressa dai padri del Vaticano II e sia perciò stato ritenuto necessario approntare un'ulteriore riforma del Messale.

E così, il 3 aprile 1969, nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, Paolo VI presentò la nuova composizione dell'editio typica del Messale Romano, evidenziandone ciò che era stato rivisto e modificato rispetto all'ultima edizione (1962) del Vetus Ordo (o Usus antiquior) di san Pio V.

Un semplice confronto tra le due Costituzioni permette di notare come ambedue siano scaturite dalla volontà rinnovatrice dei Concili che avevano preceduto la loro redazione. Ambedue, quindi, sono il frutto di due contesti storico-ecclesiali in fermento: la Controriforma, da una parte, e il movimento liturgico dall'altra.

Comune ai due atti pontifici è stato anche il riferimento espresso alla volontà che i riti liturgici attingessero alla medesima fonte dell'antica tradizione dei santi Padri. Tale elemento acquista un significato profondo se si pensa come la medesima traditio abbia inciso profondamente sulla composizione delle due edizioni del Messale Romano.

È ora comprensibile come i due Ordines Missae rappresentino la norma circa l'uso delle due forme celebrative di un unico rito liturgico (lex orandi), quello romano, patrimonio dell'unica ed immutata fede (lex credendi) della Chiesa. Ciò è quanto insegnava anche Benedetto XVI nel Motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007), nel quale offriva un'ampia regolamentazione giuridica sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 e mai abrogata.

Vogliamo concludere questo contributo con qualche osservazione di stampo canonistico in merito proprio alla quaestio disputata circa l'abrogazione. La Summorum Pontificum, essendo una Lettera Apostolica sotto forma di Motu proprio, ha il valore giuridico di legge universale. Essa abroga le leggi contrarie e quelle anteriori ad esse che riguardano il medesimo argomento. Nel nostro caso, le norme abrogate sono quelle prescritte da Giovanni Paolo II (1978-2005) nella Lettera Quattuor abhinc annos e nel Motu proprio Ecclesia Dei Adflicta.

Bisogna poi distinguere tra le rubriche che regolano lo svolgimento pratico della liturgia e le leggi liturgiche che governano la disciplina liturgica in generale. Le rubriche indicano al ministro celebrante cosa deve fare durante la celebrazione del rito; esse rimangono in vigore per coloro che celebrano la Messa secondo la forma straordinaria. Tuttavia, le leggi liturgiche del Codice del 1917, così come alcune norme inserite nel Messale del 1962, sono state abrogate dalla recente legislazione ecclesiale. Pertanto queste leggi disciplinari possono non essere più osservate quando la legge in vigore permette qualcosa di diverso. Un semplicissimo esempio ci aiuterà a capire meglio la questione: nella legge vigente nel 1962, la Messa non poteva essere celebrata nel pomeriggio o alla sera senza permesso dell’Ordinario del luogo. Questa restrizione non è più valida, anche quando si celebra secondo la forma straordinaria. Possiamo quindi concludere che le leggi liturgiche, universali e vigenti, devono essere osservate anche nella celebrazione del rito in forma straordinaria, mentre rimangono chiaramente valide le rubriche previste dal rito stesso.